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Alla buon'ora!

mercoledì 26 febbraio 2014
[In questo giorno, Napoleone fuggì dall'isola d'Elba nel 1815. Nel 1905 nacque lo scrittore e viaggiatore Robert Byron, che morì a 35 anni nel 1941
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Se il numero di Pagina99 di questa settimana titolava "Il FMI chiede più eguaglianza" a firma di Roberta Carlini, si potrebbe a prima vista esclamare: "Alla buon'ora!". E anche i più "radicali" e "sinistrorsi" d'Italia e d'Europa esulteranno pensando, in fondo, "l'avevamo detto". Se è vero che in molti l'avevamo detto, non è però giusto, ad onor del vero, bacchettare le mani ai funzionari del Fondo o ai suoi ricercatori, che è da tempo che mettono in guardia i policy makers su certe storture. È che purtroppo policy makers e decision makers al Fondo come in altre istituzioni agiscono pavlovianamente sulla base delle premesse che si sono dati e che la politica non mette in discussione.

Lo studio di Ostry, Berg e Tsangarides pubblicato il 17 febbraio, che si rifà addirittura al povero Arthur Okun, tra i più bistrattati critici del mainstream economico senza essere stato un "radicale", sostiene che "la diseguaglianza e la incapacità di sostenere la crescita sono due lati della stessa medaglia", affermando peraltro che "il Fondo ha riconosciuto negli anni recenti che non si possono separare le questioni della crescita e della stabilità da quella dell'eguaglianza". Il che è vero. Pochi giorni prima era uscito l'articolo di Pescatori, Sandri e Simon su debito pubblico e crescita dove i tre autori affermavano a chiare lettere di "non trovare evidenza che vi sia una particolare soglia di debito oltre la quale le prospettive di crescita di medio termine siano compromesse". In altre parole, non sarebbe vero che più ci si indebita, più si allontana la possibilità di fare crescere l'economia. Nel novembre scorso, sempre dal FMI, un altro studio di Baldacci, Mulas e Mulas-Granados concludeva che "gli aggiustamenti fiscali basati sulla riduzione della spesa possono rallentare la crescita mentre misure basate su un mix di riduzioni di spesa e maggiori entrate possono sostenere la crescita del prodotto, riducendo il debito pubblico. In tale contesto, proteggere gli investimenti pubblici è critico per la crescita di medio termine tanto quanto la messa a punto di riforme atte a migliorare la produttività dal lato dell'offerta".

Che al Fondo non vi siano solo Reinhart e Rogoff è noto. E che nel "mainstream" non tutte le posizioni siano pro-austerity è ormai acquisito. I "prociclicisti" coloro che affermano che le politiche di consolidamento fiscale devono essere pro-cicliche, ovvero espansive quando l'economia cresce e restrittive quando l'economia si contrae – , come li chiama Jeff Frankel, devono rendersi conto che non è l'austerity che deve essere pro-ciclica, ma la politica fiscale (il mix tra maggiori o minori entrate e maggiori o minori spese). "Quando l'economia si espande, il governo deve essere in surplus, quando l'economia è in recessione, il governo deve essere in deficit", aveva affermato su VoxEU già nell'agosto 2012. La politica fiscale deve essere pro-ciclica così da "mettere in granaio maggiore spesa e minori entrate nelle fasi espansive e fare il contrario nelle fasi recessive".

Due giorni fa, il progressista New Yorker, titolava semplicemente il bell'articolo di John Cassidy: "Ma fare qualcosa per ridurre la diseguaglianza riduce la crescita? La risposta è NO". L'articolo merita, è una rassegna interessante.

Il problema, però, di nuovo, è che mentre studiosi ed economisti forniscono analisi e risposte, la politica e le istituzioni faticano ad assimilarle. Il discorso pubblico è straniato da "parole d'ordine" e gergo che si auto-alimenta con il riverbero che ottiene sui media. Criticare l'austerity sta diventando una moda, ma solo per controbattere le critiche interessate di populismi e anti-europeismi crescenti, non per convinzione. I diktat dei Signori della Commissione continuano imperterriti – gli Olin Rehn di turno – mentre neo-ministri balbettano cercando di cancellare gli errori fatti ma senza prenderli di petto e aprire a nuove strade. Per tre anni, come ha sottolineato Paul Krugman, l'OCSE ha fornito quello che è stato forse "il peggior consiglio" tra tutte le principali organizzazioni internazionali, "peggio della Commissione Europea, peggio della BCE. Non solo l'OCSE si è accodato alla domanda di austerity, ma ha suggerito che gli USA aumentassero i tassi di interesse immediatamente così da prevenire minacce inflattive, anche se nessun modello faceva prevedere tali sviluppi". E poi abbiamo visto i risultati. E dopo tre anni c'era ancora il sincero Pier Carlo Padoan a difendere quella posizione affermando che "il consolidamento fiscale sta producendo risultati, il dolore sta producendo risultati" (il corsivo è nostro), aggiungendo che i policy makers dovrebbero comunicare meglio i risultati ottenuti euro-gergo per dire "continuiamo pure con le percosse finché si tira su il morale", come dice Krugman –.

La vox-populi spinge da una parte, ma la coazione a ripetere il mantra stabilito spinge dall'altra i decision makers. Perché in realtà ci sono interessi più forti che contano, come quelli degli investitori e dei mercati finanziari. Non è questione di complotto, è semplicemente questione di chi "conta" di più. Sul citato VoxEU, Furceri e Loungani – in un articolo intitolato "In cerca delle origini della diseguaglianza" – hanno recentemente mostrato come l'accoppiata tra austerity e liberalizzazione dei movimenti internazionali di capitali va generalmente insieme a considerevoli aumenti della diseguaglianza. Il reddito di pochi che ne traggono vantaggio contro il reddito di molti che ne vengono penalizzati.

Come ironizza il buon Krugman avevano dunque ragione tutti quelli che, "rabbiosi radicali di sinistra", dicevano che le decisioni politiche sono in realtà motivate da ragioni di classe e che le giustificazioni ideologiche alla necessità di una certa disuguaglianza non nascondono altro che interessi di parte. Oppure che quelle che ci vengono presentate come "buone politiche economiche" non sono altro che politiche atte a redistribuire il reddito a favore di chi ce l'ha più alto. Eppure, per una volta, anche l'econometria e l'evidenza statistica supportano queste conclusioni. Alla buon ora!