Dopo i fatti di Parigi: per capire
domenica 29 novembre 2015
[Giornata internazionale di solidarietà per il popolo palestinese, ricorrenza indetta dall'Organizzazione delle Nazioni Unite che ha luogo tutti gli anni il 29 novembre per ricordare l'anniversario dell'approvazione della risoluzione 181 dell'Assemblea generale delle Nazioni Unite (1947)]
«Non
c’e’stato un momento preciso in cui è cominciata questa guerra.
Abbiamo combattuto in Corea, in Jugoslavia, in Iran. Il conflitto si
è allargato. Sempre di più. Alla fine hanno cominciato a sganciare
bombe anche qui. È successo come il diffondersi di un’epidemia. La
guerra si è estesa. Non è cominciata.»
[Gli
appunti qui riportati sono stati da me preparati per un incontro
pubblico svoltosi a Quarto Inferiore (Granarolo), al Circolo del PD,
domenica 29 novembre, alle ore 10.30, intitolato “Le ragioni del
conflitto globale”. All'incontro, coordinato da Maurizio Morini,
hanno partecipato anche Raffaele Salinari e Pier Paolo Dal Monte].
I
fatti recenti ci fanno riflettere. Gli attentati terroristici di
Parigi: decine di persone inermi uccise in luoghi e situazioni
simboliche. Terrorismo perché genera terrore, cioè paura. Luoghi
simbolici perché identificabili: un teatro, uno stadio, un ristorante.
A Parigi, un'affollata sera di venerdì nel centro di una metropoli
europea. Uccisioni rivendicate in situ dagli esecutori e poi su
internet con argomentazioni del fondamentalismo religioso, da gruppi e
organizzazioni note. Sono loro che si sono attribuiti le uccisioni, gli
uccisori e i loro mandanti. Nessuno di noi – non gli esperti di Medio
Oriente o di terrorismo, non gli studiosi che conoscono l'Islam e la
storia, non i sociologi, i politologi, gli economisti – ha una risposta
chiara ed univoca a due domande: Perché è successo? Come dobbiamo
reagire? Molti hanno risposte diverse alle due domande. Certo, è vero
che i fatti di Parigi ci fanno riflettere in primo luogo perché tutti
quei morti innocenti sono stati uccisi a casa nostra e non altrove,
dove i morti uccisi sono invece decine ogni giorno e per le stesse
ragioni apparenti (v. ad es. le riflessioni di Andrea Inglese su Nazione Indiana).
Ma la gravità dei fatti e la reazione a quei fatti che i governi dei
nostri paesi ha provocato ora ci riguarda da vicino ed è di questa che
ci dobbiamo occupare.
Non sono un “esperto” di Medio Oriente, né
tanto meno di terrorismo. Per ragionare mi sono documentato, sono
andato a studiare. Io mi occupo di sviluppo e sottosviluppo, studio il
mondo e i paesi che oggi sono al centro dell'attenzione, cerco di
capire. Capire non vuol dire “giustificare”. I giornali e i media in
generale, come sempre, non fanno una buona azione d'informazione,
cercano di “convincere” l'opinione pubblica riguardo a tesi tutte da
dimostrare, spesso. Le idee che mi sono fatto, che espongo qui sotto,
sono basate sulle mie conoscenze e sulle informazioni che ho raccolto e
incrociato con spirito analitico e critico. Le informazioni sono
disponibili, vivaddio, ma bisogna saperle leggere: questa del resto è
la ovvia e nota considerazione che va fatta sempre, oggigiorno.
Brevemente, vorrei portare questi elementi alla discussione:
1. il conflitto non è globale, è molto specifico,
anche se ha caratteristiche che ne favoriscono la diffusione su scala
mondiale – guardiamo alle ragioni storiche, socio-economiche che ne
stanno alla base e capiremo di più
2. cosa intendiamo per conflitto: è davvero un conflitto nel senso di guerra?
No, assomiglia di più ad un altro tipo, nell'accezione che si usava nei
decenni scorsi e che oggi è tramontata: quella di conflitto sociale,
conflitto di classe, oggi diventato a volte inter-religioso,
inter-etnico, inter-culturale – il conflitto sociale sfocia in un
conflitto diverso, quello religioso, e viene usato per altri scopi
alimentandolo. Non accettiamo l'idea che siamo in guerra!
3. “noi”
e “loro” non sono utili punti di riferimento, anche se, certo, vi sono
elementi profondamente socio-culturali (si parla di “scontro di
civiltà”) alla base dello scontro, che non è comunque tra loro e noi ma
tra alcuni di loro e alcuni di noi, al più – si tratta di capire quindi
chi sono i gruppi sociali, i tipi, coinvolti.
4. stiamo parlando dei
fatti di Parigi e anche del cosiddetto “terrorismo” – non facciamo di
tutta un'erba un fascio – con ciò voglio dire che, ad esempio, il problema dei migranti e dei rifugiati non c'entra nulla con i fatti di Parigi.
5.
Un ulteriore aspetto riguarda una questione che molti fanno fatica a
porre: sono i terroristi o comunque coloro che perpetuano questi
assassinii “veri” musulmani”? Sì, lo sono, ma non per questo tutti i
musulmani sono assassini, ovviamente.
Esporrò questi concetti si
seguito riportando anche le principali fonti per le informazioni che
riporto. In fondo, riporterò anche una breve lista di articoli e
interventi utili e interessanti.
1. Il conflitto non è globale
Per discutere di questo è utile ripercorrere un po' di storia del Medio Oriente, con particolare attenzione a Siria e Iraq.
1.1. Un po' di storia (recente): la Siria
[Sulla storia recente si vedano ad es. l'articolo di William Polk, "Understanding Syria: From Pre-Civil War to Post-Assad", The Atlantic, 2012 e la pagina Wikipedia sulla Siria]
Per
cominciare acapire, dobbiamo guardare alla storia e alle vicende di due
zone del mondo note come Siria e Iraq e più in generale al Medio
Oriente. Dopo il crollo dell'Impero Ottomano, Siria e Iraq nascono come
Mandati – cioè territori controllati e amministrati – di Francia e Gran
Bretagna. Certo, c'era già una storia pregressa, ma quello fu un punto
di svolta, perché Siria ed Iraq non esistevano come tali, come sono
oggi. Sono territori compositi, popolati da gruppi con storie, lingue,
religioni diverse, da secoli. Gli arabi sunniti ne sono la maggioranza,
poi ci sono molti altri gruppi (la lista è lunga): il più numeroso, non
arabo, è quello curdo, ma ci sono armeni, alawiti, aramei, assiri,
turcomanni, circassi, yazidi... Dal punto di vista religioso i più sono
islamici sunniti, ma vi sono anche sciiti, cristiani caldei, cristiani
assiri, cattolici, ortodossi siriaci, ortodossi armeni, ebrei.
Sia
per la Siria che per l'Iraq, la storia moderna comincia dopo la prima
guerra mondiale. In Siria, molte delle distorsioni che hanno poi
portato al cristallizzarsi delle tensioni inter-etniche e sociali sono
dovute all'imposizione di un ordine politico imposto dai francesi.
Dopo
il “blitz” con cui la Francia si appropriò dei territori di Siria e
Libano dividendoli, lasciando Israele, Iraq e Giordania agli inglesi –
da qui la linea retta che separa Siria e Iraq – vi fu una Repubblica
Siriana nata nel 1930 sotto mandato francese, poi l'indipendenza
formale nel 1936 e lo stato sovrano nel 1941 (l'ultimo soldato francese
se ne andò però il 17 aprile 1946, oggi considerato giorno
dell'indipendenza). Nel 1958, la Siria si cimentò nell'unione con
l'Egitto di Nasser (Repubblica Araba Unita), che ebbe breve vita, per
poi subire, nel 1963, il colpo di stato da parte del Partito Baath –
che vuol dire partito della “resurrezione”, un partito nazionalista
pan-arabo socialista fondato da un cristiano e un sunnita, presente
anche in Iraq. Successivi colpi di stato portarono al potere Salah
Jadid e poi, nel 1970, alla divisione del Partito in due: uno siriano e
uno iracheno, che governerà l'Iraq dal 1968 al 2003 (v. sotto). La
guerra persa con Israele nel 1967 – quella dei “sei giorni” con la
quale il Golan venne occupato – e poi la divisione sul “settembre nero”
per aiutare i palestinesi in Giordania portarono al potere Hafez Assad,
il militare forte del governo Baath. Assad perse la nuova guerra con
Israele nel 1973 (quella del “kippur”) poi nel 1976 invase il Libano,
dove le truppe siriane restarono per ben 30 anni fino al 2005
controllando buona parte del territorio libanese.
Assad
era un alawita (islam sciita), laico tuttavia, che instaurò un regime
vieppiù autoritario e centralistico. Nel 1982, un'insurrezione
islamista del movimento della Fratellanza Musulmana fu sedata nel
sangue (con decine di migliaia di morti).
La
Siria si schierò poi contro l'ex “fratello Baath” Saddam Hussein in
Iraq nel 1991 (perché questi aveva combattuto l'Iran che era diventato
nel frattempo il principale alleato di Assad). Morto Hafez Assad, fu
“eletto” il figlio Bashar nel 2000 (senza oppositori). La “primavera di
Damasco” nel 2001 fu subito repressa, poi vari episodi marcarono il suo
governo sotto il quale sia la maggioranza sunnita conservatrice che i
curdi sono sempre stati discriminati. Fino allo scoppio delle rivolte
del 2011 (non una nuova “primavera”, però) nate da ragioni economiche
(v. sotto), che furono represse nel sangue, dando luogo ad una vera e
propria guerra civile tra le forze di governo prevalentemente alawite e
sciite e gruppi di opposizione sunniti di varia estrazione. Il
conflitto, però, non è religioso (la moglie di Bashar Assad è sunnita)
o almeno non lo era in origine, ma fondamentalmente sociale ed
economico all'origine, dovuto al predominio e al controllo di alcuni
gruppi sulle risorse e il territorio a spese di altri (v. sotto).
In
Siria, sulla popolazione totale, i musulmani sunniti sono circa il
73-75%, di cui arabi (60%), curdi (9%) e turcomanni (3%), mentre il 13%
sono sciiti. Il 10-12% sono cristiani (in maggioranza ortodossi di
varie chiese, un quarto cattolici, 2.5 milioni in totale), mentre i
drusi (monoteisti abramitici unitari) sono circa il 5% (tra i 500 e gli
800 mila, mentre in Libano ve ne sono 610 mila). Nel passato, questi
gruppi hanno vissuto in enclavi circoscritte, più o meno in pacifica
convivenza.
1.2. Un po' di economia
La
Siria è classificata dalla Banca Mondiale come paese a reddito medio
basso. I dati stimati dicono che la Siria, nel 2010 (prima dell'inizio
della guerra), aveva un PIL pro-capite di 5.100$ (media degli anni
precedenti) per 24 milioni di abitanti distribuiti su un paese di 185
mila kmq (quasi 2/3 dell'Italia). Il PIL pro-capite era lo stesso della
Giordania, il doppio di Pakistan e Yemen, ma solo un terzo di quello di
Libano, Turchia o Iran.
La sua economia era cresciuta molto
negli anni '60, meno negli anni '70 e dagli anni '80 in avanti aveva
avuto crescita modesta. Nel decennio precedente l'inizio della guerra
civile, la crescita annuale era stata tra il 2% e il 6%. Basata
prevalentemente sul petrolio (330 mila barili di petrolio l'anno, 20%
del PIL esportato), il paese aveva però una sua base agricola. Si
consideri, tuttavia, che dell'intera superficie del paese, solo un
quarto è “coltivabile” e solo il 10% è in realtà coltivato, il resto è
deserto. Ovvero, la superficie del paese vivibile (“economica”) è è
grande come la Svizzera – ciò significa, in pratica, che la Siria
agricola ha una densità di popolazione maggiore di quella del Belgio
(500 contro 350 abitanti per kmq). A parte la zona mediterranea, il
resto del paese è molto dipendente dalle zone acquifere dei fiumi
(l'Eufrate innanzitutto) e soggetta a tempeste di sabbia e polvere e
siccità. Una siccità devastante fu quella che colpì il paese tra il
2006 e il 2011, che ha poi messo in ginocchio l'agricoltura e
l'economia. Le tempeste hanno eroso il terreno agricolo, proprio come
successe in America negli anni '30 nella dust bowl degli stati centrali
che causò enormi migrazioni interne.
E
in Siria hanno dato origine alle tensioni che hanno poi portato alla
guerra civile. [sugli effetti della siccità tra le ragioni della guerra
civile, si veda il rapporto del Center for Climate and Security del
2012]. L'anno prima della guerra (2010), solo 13,500 kmq poterono
essere irrigati. Nel 2010, alla fine del lungo periodo di siccità, il
PIL pro-capite era sceso a 2.900$. Il tasso di povertà misurato nel
2005 era del 30% ma in termini di altri indicatori (sanità e
istruzione) la Siria era ai livelli di Iran e Arabia Saudita.
Dopo
quattro anni di siccità, 800 mila persone erano state messe in
condizioni di non poter più vivere della terra e ben 200 mila erano
migrate verso le città. I raccolti crollarono fino al 75%, mentre il
bestiame è diminuito dell'85%. Fu stimato che tra i 2 e i 3 milioni di
abitanti erano stati ridotti in condizione di estrema povertà. La
migrazione verso i centri abitati si scontrò, tuttavia, con
un'esistente concentrazione di rifugiati di altre guerre, quelli
provenienti dall'Iraq (due milioni almeno) e i palestinesi (mezzo
milione). La FAO stimò già nel 2008 che la situazione stava provocando
una “tempesta perfetta” dal punto di vista sociale, e chiese un
intervento di USAID senza trovare ascolto. Il governo siriano ci mise
del suo, vendendo le riserve strategiche di grano sul mercato mondiale
(attratto dai prezzi alti) ma così il paese dovette cominciare ad
importare grano. Questo fece accendere la miccia della rivolta sociale:
una semplice protesta nel marzo 2011 a Damasco si sparse poi a Daraa e
Homs – tra le zone più povere del paese, sunnite – e fu sedata nel
sangue dall'esercito di Bashar Assad. Quella che cominciò come una
rivolta per cibo e acqua divenne presto una guerra civile.
1.3. La guerra civile
[un interessante fonte è la pagina Wikipedia sulla guerra civile in Siria, che viene costantemente aggiornata]
La
Siria ha sempre avuto un problema di “identità nazionale” che doveva
coniugare una popolazione variegata e un paese che non era mai stato
unito. Mentre in passato aveva senso dirsi alawita, yazida, curdo,
arabo siriaco, non ha mai avuto un significato l'essere “siriano”. Si
consideri che gli Alawiti – che si considerano “popolo eletto” – sono
stati considerati dai sunniti eretici, quindi non propriamente sciiti
(cioè scismatici ma non eretici). Nel 1980, in ogni caso, la
rivoluzione khomeinista aveva già cambiato la geografia politica
dell'area e Assad si schierò con l'Iran contro Saddam Hussein,
anch'egli Baath in origine ma finanziato dagli americani (a quel
tempo). Ma gli Assad al potere in Siria, e il blocco sociale attorno
alla loro autocrazia corrotta, ha finito per congelare la
contrapposizione tra l'elite al potere e il popolo, coagulandolo
attorno alle correnti mainstream, quindi sunnite conservatrici, non
diversamente da molti altri paesi del mondo arabo.
Quando si è
trattato di sedare la rivolta del 2011 nel sangue, Bashar Assad non ha
pensato alle conseguenze. Un paese già diviso, stremato dalla siccità e
“invaso” dai rifugiati è diventato una polveriera che è subito esplosa,
dividendosi in zone d'influenza (non essendo lo Stato più presente).
Gruppi anche molto diversi tra loro si sono messi a combattere per il
controllo del territorio e il governo si è trovato così di fronte non
uno ma molti nemici.
La base comune della guerra è diventata
la religione non l'etnia, come poteva essere ad esempio in Afghanistan.
Due tipi di opposizione si sono materializzati nella guerra contro
Assad: un islamismo nazionalista – sunniti contro il blocco alawita-cristiano al potere – e un islamismo fondamentalista
– contro la degenerazione materialistica e “occidentale” del blocco al
potere, che negli anni si era arricchito lasciando la maggioranza della
popolazione nell'indigenza. Agli islamisti fondamentalisti non
interessa combattere Assad per la Siria, a loro interessa affermare un
governo islamico fondamentalista che travalichi i confini del paese e
si estenda oltre a tutti i paesi islamici. E, infatti, agisce anche in
Iraq e altrove. La guerra in Siria non è mai diventata una guerra tra
gruppi che lottavano per la libertà e un tiranno, questa è la
caratteristica specifica di questa guerra civile (a differenza di altre
“primavere arabe”, come quella tunisina). I gruppi in guerra si sono
quindi trovati in guerra tra loro oltre che con il regime di Assad (e
anche per questo i governi occidentali e di altri paesi si sono trovati
in difficoltà su chi appoggiare). Le violenze e le atrocità sono state
commesse da tutti e contro tutti.
La guerra civile ha avuto un
evoluzione davvero caotica che ha messo in campo qualcosa come quindici
(almeno) fazioni riconosciute in innumerevoli brigate e milizie,
organizzate su tre/quattro fronti/blocchi in guerra tra loro: le forze
governative e pro-governative; le forze anti-governative suddivise tra
sunniti moderati, curdi sunniti e yazidi; sunniti radicali e
fondamentalisti a loro volta frazionati in due, tra ISIS e gli altri.
L'evoluzione
della guerra mostra l'andamento di queste lotte tra fazioni. Già alla
fine di luglio 2011, tre mesi dopo le prime rivolte, c'erano 1600
civili e 500 soldati uccisi. Le forze di opposizione formarono un
Esercito Siriano Libero (FSA, inizialmente sostenuto dalla Turchia) e
un Consiglio Nazionale Siriano, gli scontri si diffusero, con attacchi
sempre più numerosi e organizzati che da guerriglia divennero guerra
vera e propria e i ribelli sostenuti (anche se non apertamente) dai
governi occidentali. In aprile 2012, un cessate il fuoco fu mediato
dalle NU (Kofi Annan), ma fu presto disatteso. Dopo il massacro di
Houla di donne e bambini compiuto da forze filo-governative, gli
scontri ricominciarono. Dal luglio 2012, dopo 16 mila vittime
accertate, la Croce Rossa Internazionale dichiarò il conflitto una vera
e propria guerra civile. I ribelli cominciarono ad ottenere successi,
controllando diverse città. Nel settembre 2012 cominciarono anche
scontri tra governo e ribelli curdi. L'offensiva dei ribelli sui vari
fronti tra novembre 2012 e aprile 2013, con l'entrata in campo di
gruppi jihadisti (sunniti fondamentalisti), si estese con successo. In
quel periodo, però, l'FSA formato da sunniti moderati e cristiani si è
coalizzato contro l'ISIS, grazie anche al finanziamento dichiarato
degli USA dall'aprile 2013 – la dichiarazione di guerra tra ISIS e FSA
essendo l'uccisione di un comandante FSA. Il governo di Assad,
appoggiato dagli Hezbollah (con il sostegno iraniano), ottenne però
nuovi successi nelle controffensive fino al giugno 2013. Governo ed
Hezbollah riguadagnarono controllo di varie città (fine 2013) e gli
scontri tra ISIS e gli altri gruppi divennero più intensi. Contro ISIS,
a quel punto, erano schierati FSA, l'Esercito dei Mujahideen e il
Fronte Islamico. Tra il giugno 2014 e il gennaio 2015 gli americani
hanno poi cominciato a bombardare l'ISIS. E lì (come reazione
dichiarata) sono cominciate le uccisioni macabre di giornalisti e
operatori catturati, riprese e diffuse via internet. Nel febbraio 2014
si è anche formato il Fronte Sud del FSA, che ha avuto diversi
successi. Nell'ottobre 2014, si è invece formato il Fronte Al-Nusra,
fondamentalista ma contro ISIS. Tra maggio e settembre 2015 l'offensiva
ISIS ha portato a nuovi successi. Poi, l'intervento russo.
Fino
ad oggi, la guerra ha già causato danni per più di 150 miliardi di
dollari (tre volte il PIL del paese nel 2010). Più di 2 milioni di
persone sono scappate dal paese (ingrossando enormemente le schiere di
migranti e rifugiati verso l'Europa) e 4 milioni sono emigrate
internamente, ma sono ancora in Siria. Le vittime stimate variano tra
140 e 340 mila (uno studio NU dell'agosto 2014 parlava di 190 mila). Il
costo della guerra si è poi rovesciato già sul Libano e sulla Giordania
(per non parlare dell'Iraq) con un milione di rifugiati in Libano,
mezzo milione in Giordania e mezzo milione in Turchia. Dei due milioni
di iracheni che erano in Siria non si sa (500 mila erano cristiani, dei
quali 200 mila sono tornati di là dal confine). A ciò si aggiunga la
pulizia etnica che sta avvenendo nelle zone controllate dai ribelli, di
cui il gruppo che più sta pagando le conseguenze sono i curdi,
costretti a rifugiarsi in Turchia o Iraq dove non sono certo ben
accetti. Il problema per la Siria, in prospettiva, è che chi se ne va
dal paese sono i più istruiti e quelli che hanno più mezzi.
Per riassumere, in campo vi sono diversi gruppi e fazioni.
Pro-governativi:
Forze Armate Siriane; Forze della Difesa nazionale (milizie); Shabiha
(milizie principalmente alawite); milizie cristiane; Hezbollah; Iran,
Russia.
Anti-governativi: Free Sirian Army e Syrian National
Council; Fronte Islamico (appoggiato dai sauditi); Curdi (sunniti ma
anche yazidi)
Anti-governativi jihadisti: brigate salafite di
vario tipo come Fronte Al-Nusra, legato ad Al-Qaeda; ISIS, fino al 2014
affiliato ad Al-Qaeda.
1.4. Storia (recente) e ruolo dell'Iraq
[si veda anche la pagina Wikipedia sull'Iraq]
L'Iraq,
con un estensione pari a quattro/terzi quella dell'Italia, dopo essere
divenuto un Mandato della Lega delle Nazioni sotto protezione
britannica dopo la prima guerra mondiale e la spartizione dell'Impero
Ottomano, divenne monarchia sotto il re Feisal, estromesso dai francesi
in Siria. Nel 1939, un colpo di stato portò eventualmente alla breve
guerra anglo-irachena del 1941 che portò poi all'occupazione militare
britannica fino al 1947 (ma le basi restarono fino al 1954). Il 14
luglio del 1958, un colpo di stato rovesciò la monarchia, dando luogo
ad una serie di colpi fino al 1968, quando s'instaurò il Partito Baath.
Saddam Hussein, uomo forte del partito, prese il potere nel 1979. Nel
1980, Hussein dichiarò guerra all'Iran (che aveva cominciato a
fomentare la rivolta della base sciita in Iraq) e l'invase. L'Iran
contrattaccò poi nel 1982. La sanguinosa guerra durò per otto anni, con
un milione e mezzo di morti sui due fronti. Nell'ultima fase, l'Iraq –
sempre sostenuto dagli USA in chiave anti-iraniana – usò anche armi
chimiche contro l'Iran e poi anche contro i curdi, uccidendo tra i 50 e
i 100 mila civili. Nel 1990, però, Hussein invase il Kuwait, rompendo
così con gli USA che, a quel punto, dichiararono guerra all'Iraq con il
pretesto di liberare il Kuwait. La “guerra del Golfo” del 1991 fu breve
e portò anche a rivolte di curdi e sciiti – profittando della debolezza
di Hussein – , che furono però represse dalle forze irachene anche con
armi chimiche. Fu durante quelle rivolte che la “coalizione”
occidentale impose la no-fly zone per proteggere le minoranze.
Bombardamenti sull'Iraq furono frequenti, come quello terribile del
dicembre 1998 che causò decine di morti e distruzioni immani.
Nel
2002, dopo l'attentato dell'11 settembre 2001 a New York, il presidente
Bush decise di invadere l'Iraq per rovesciare Hussein con il consenso
coartato dell'ONU e l'appoggio della Gran Bretagna. La ragione
ufficiale per giustificare l'invasione della coalizione filo-americana
fu che Hussein voleva costruire armi di distruzione di massa (volendo
confermare così che era diventato un dittatore alla pari di Hitler,
secondo la versione prefabbricata per i media dagli americani) e
finanziava il “terrorismo” (di non si sa bene quali parti). Ora
sappiamo che l'invasione avvenne per altri motivi, come il controllo
del petrolio. L'invasione avvenne nel marzo del 2003 e i vertici del
partito Baath e delle Stato furono catturati e in molti casi
giustiziati.
L'Iraq
è popolato per il 75-80% da arabi, per due terzi sciiti (rosa) e un
terzo sunniti (verdi), e poi da curdi (gialli), assiri (viola),
turcomanni (arancioni), yazidi (verde scuro) e varie altre minoranze. I
cristiani assiri sono poco meno del 5% della popolazione.
L'economia
irachena è dominata dal petrolio (95% degli introiti esteri).
L'economia, che fino al 1980 era progredita fino a superare il 6000$ di
PIL pro-capite, dopo la guerra con l'Iran è rimasta devastata. Più di
metà della terra arabile – che è meno del 10% della superficie del
paese, altrimenti deserta – è coltivata, ma l'Iraq importa
comunque beni alimentari. La terra arabile è comunque diminuita dai 5.6
milioni di ettari del 1993 ai 3.4 milioni del 2012. Le sanzioni che
hanno pesato sul paese dal 1991 al 2003 hanno lasciato il paese in
ginocchio e solo dopo la caduta di Hussein l'economia ha cominciato
lentamente a riprendersi (solo grazie alle esportazioni di petrolio
controllate dalle compagnie occidentali). Le sanzioni provocarono danni
enormi alla popolazione. Oggi il paese è profondamente diviso, con un
governo incapace di controllare il paese.
Dopo l'invasione
dell'Iraq e l'occupazione di forze americane e degli altri paesi
occidentali, si formarono gruppi di insorgenti di ispirazione islamica
sunnita fondamentalista. La fallita ricostruzione non fece altro che
aggiungere polvere da sparo ad una miccia già accesa. L'esercito
governativo ex-Baathista sunnita era stato smantellato e i nuovi gruppi
reclutarono vari membri che avevano fatto parte delle forze di
sicurezza di Hussein. La violenza tra sunniti e sciiti esplose
(fomentata strumentalmente da chi voleva un paese allo sbando). Le due
battaglie di Falluja nel 2004 furono l'apice della violenza organizzata
contro le forze di occupazione che divenne sostanzialmente guerriglia.
Le
milizie sunnite fondamentaliste convogliarono sotto Al-Qaeda,
l'organizzazione di Osama bin Laden indirettamente finanziata
dall'Arabia Saudita, colpendo le forze di occupazione e gruppi di
popolazione sciiti. Nel 2006, uno dei leader di Al-Qaeda fu ucciso e
anche Saddam Hussein venne giustiziato. Dal 2008, in ogni caso, il
governo a base prevalentemente sciita controlla solo la parte
meridionale del paese, mentre le zone settentrionali sono stabilmente
sotto il controllo militare delle forze jihadiste (a nord-ovest) e
curde (a nord-est). Non si può dire che l'Iraq oggi abbia uno Stato che
controlla e amministra l'intero suo territorio. Lo scoppio della guerra
civile in Siria, lo stato di guerriglia permanente in Iraq delle forze
sunnite fondamentaliste contro curdi e forze filo-governative sciite e
la porosità dei confini tra i due paesi hanno avuto un effetto
moltiplicativo sulla conflittualità dell'area. Guerra civile in Siria e
diffusione dei gruppi sunniti fondamentalisti si sono alimentati a
vicenda. Oggi, il gruppo più agguerrito e armato, l'ISIS, di fatto
controlla un vasto territorio tra Iraq e Siria. È quindi dall'Iraq che
la guerra in Siria trova alimento – un retroterra di nessuno dove le
bande possono scorrazzare e dove si accaparrano di armi e munizioni che
abbondano in Iraq.
1.5. Lo Stato Islamico (e il “califfato”)
L'ISIS – ovvero Islamic State of Iraq and Syria,
dove Syria sta anche per al-Sham – detto anche ISIL, in inglese proprio
(invece di Syria si usa Levant per indicare quell'area del Medio
Oriente), detto infine DAESH o DAISH (l'equivalente di ISIS in arabo)
il 29 giugno 2014 si è autoproclamato Stato Islamico o Califfato con
Abu Bakr al-Baghdadi come Califfo (anche se lui non è di Bagdad, ma di
Samarrah, Iraq). Il gruppo nacque nel 1999 con altro nome, giurò
fedeltà ad Al-Qaeda nel 2004 e partecipò all'insorgenza in Iraq contro
le forze di occupazione e il governo filo-americano. Nel 2006, il
gruppo aderì al Consiglio delle Shura Mujahideen (letteralmente mujaiddeen sono i combattenti per la jihad).che
proclamò la formazione di uno Stato Islamico dell'Iraq (ISI, in
inglese). Dopo l'inizio della guerra in Siria, il gruppo mandò delegati
e combattenti in Siria che formarono il Fronte di Al-Nusra nelle zone
sunnite di Raqqa, Idbid, Deir Ezzor e Aleppo. Nell'aprile 2013,
Al-Baghdadi annunciò l'unione dell'ISI e del Fronte di Al-Nusra sotto
l'unico nome di ISIS. Tuttavia, sia il leader di Al-Nusra che quello di
Al-Qaeda rifiutarono l'unione e dopo mesi di lotte intestine il 3
febbraio 2014 Al-Qaeda annunciò di aver tagliato ogni legame con ISIS.
ISIS guadagnò comunque terreno sul piano militare sia in Iraq che in
Siria, grazie alle forniture ed appropriazioni di armi e munizioni e
all'influsso di combattenti stranieri (foreign fighters).
Nel
luglio 2014, circa 6000 combattenti che erano in precedenza con il
fronte anti-governativo siriano si sono uniti a ISIS. Nel settembre
2014 ISIS ha cominciato anche a rapire civili per ottenere riscatti e
finanziarsi. Gli attacchi sono poi proseguiti su varie città irachene e
yazidi, poi su obiettivi civili. L'ISIS opera come un esercito di
guerriglieri, ferocissimi e determinati. Si ispira all'islam delle
origini, quello di Mohammad conquistatore (da cui viene la bandiera
nera), vede i seguaci di altre religioni o non credenti come infedeli o
apostati, nella linea dell'islam salafita o wahhabita, fondamentalista
e ultra-ortodosso, che ha anche ispirato l'islam dell'Arabia Saudita. I
salafiti propugnano la jihad, che letteralmente significa “dovere
religioso di diffondere l'Islam” e, per estensione, “guerra santa”. La
jihad è componente fondamentale dell'islam, ma come spesso accade è la
sua interpretazione che varia. Tuttavia, l'autentica jihad non prevede
la conversione con la forza anche se può prevedere il martirio. Molte
guerre anti-coloniali nell'epoca moderna hanno avuto elementi di jihad.
Ma anche le prime lotte contro la formazione di Israele ebbero elementi
di jihad, come l'ha avuto Hamas, il movimento palestinese. La
Fratellanza Musulmana in Egitto e in tutto il Medio Oriente ha da
sempre avuto connotazioni di jihad. La jihad viene usata per
giustificare la necessità di liberarsi delle nefaste influenze
occidentali, cristiane, materialistiche e consumistiche. La jihad
contemporanea, comunque, non è necessariamente militare o comunque
armata. Le forme estreme e fondamentaliste di jihad chiamano alla lotta
del dar al-islam anche contro
le forme eretiche e devianti di islam. Una jihad fu proclamata, ad
esempio, contro i russi in Afghanistan o contro Anwar Sadat in Egitto.
Un
importante interprete moderno della jihad fu Abdullah Azzam, un imam
della Fratellanza, che ispirò molti, tra i quali anche Osama bin Laden.
Azzam reclutò molti militanti islamici alla causa anti-sovietica (si
parla di 35 mila volontari), con il supporto, che non è mai mancato
anche a Bin Laden, dell'Arabia Saudita. La vittoria contro i sovietici
fu un grande fattore di successo per la causa della jihad militare tra
i movimenti islamici, estendendosi poi a paesi come l'Algeria, la
Bosnia e la Somalia. Nel febbraio 1998 Osama bin Laden pubblicò la sua
“dichiarazione del fronte islamico mondiale per la jihad contro gli
ebrei e i crociati” su un quotidiano arabo. Azzam fu poi ucciso nel
1999 da altri islamisti. Va detto che sono i sunniti i più estremisti
tra gli islamici: tra gli sciiti, infatti, la jihad non ha l'importanza
che ha tra i sunniti, anche se alcuni attacchi sciiti contro obiettivi
occidentali sono stati compiuti sotto il nome della jihad.
Anche
la jihad si è evoluta nel tempo. Fino al 1983, non si era mai sentito
che un devoto islamico si potesse far saltare in aria, così come non
era ammessa l'uccisione di musulmani innocenti fuori dal campo di
battaglia. La “jihad della spada” classica aveva molti vincoli di
rispetto e delimitazioni. Il suicidio, in particolare, era visto come
male. L'interpretazione “moderna” di Al-Qaeda e dei salafiti, ad
esempio, vede invece il martirio nella jihad come buono. L'Arabia
Saudita sostiene il wahhabismo, una forma rigorosa di salafismo.
L'ISIS, a differenza di altri gruppi estremisti come Al-Qaeda,
enfatizza l'importanza dell'apocalittico. Il giorno finale del giudizio
di dio sarà quando arriverà l'Imam Mahdi, e quel giorno è vicino. ISIS
sconfiggerà “l'esercito di Roma” nella città di Dabiq. L'apocalisse,
secondo alcuni, per la quale si combatte in Iraq e Siria, attira molti
foreign fighters dall'Europa. La maggioranza dei leader dell'ISIS è
irachena e proviene dai ranghi del partito Baath smantellato.
L'area
controllata dall'ISIS è abitata da circa 8 milioni di siriani e
iracheni sunniti, con Raqqa al centro. In ogni caso, il controllo non è
solo militare, ma anche amministrativo. É difficile dire quanti siano i
militanti. La forza militare di ISIS varia tra i 20 e i 200 mila
combattenti e viene stimato che la metà di questi siano stranieri.
Secondo una fonte ONU, gli stranieri sarebbero 20 mila, di cui 3400
provenienti da paesi occidentali. Oggi, il numero di foreign fighters è
superiore a quello che fu per l'Afghanistan. Queste le stime: Tunisia:
3,000; Arabia Saudita: 2,500; Russia: 1,700; Giordania: 1,500; Marocco:
1,500; Francia 1,200; Turchia: 1,000; Libano: 900; Germania: 700;
Libia: 600; United Kingdom: 600; Indonesia: 500; Uzbekistan: 500;
Pakistan: 500. Ve ne sono anche 80 stimati dall'Italia. Quello che le
stime non dicono è che la grande maggioranza dei combattenti
provenienti dall'Europa sono immigrati arabi di prima o seconda
generazione (islamici già convertiti).
1.6. Perché il conflitto è innanzitutto locale e in che cosa è globale
In conclusione, possiamo così riassumere i termini:
- Il
disfacimento dell'Iraq dopo l'invasione della coalizione guidata dagli
USA ha portato alla suddivisione del paese in tre zone: una zona a sud,
più fertile, agricola, più sviluppata, a maggioranza sciita e con una
presenza cristiana; una zona più a nord-ovest, agricola ma povera, a
maggioranza sunnita conservatrice; una zona a nord-est, curda e
sunnita. Il regime filo-americano iracheno è stato funestato da
insorgenti e attacchi sin dall'inizio, con una riorganizzazione anche
militare di tutta l'opposizione ex-Baath e sunnita. Qui, hanno preso
terreno i movimenti salafiti fondamentalisti. Quando è scoppiata la
guerra civile in Siria per le ragioni che abbiamo visto sopra –
all'inizio tra le forze governative filo-iraniane sciite e un fronte
islamico per la Siria libera nazionalista più che fondamentalista – i
gruppi salafiti sono entrati dall'Iraq e hanno cominciato a combattere
sia contro le forze filo-governative che contro gli anti-governativi da
una parte e i curdi dall'altra.
- Da qui è nato l'ISIS
(Islamic State of Iraq and Syria) – grazie alla dotazione militare
enorme ereditata dall'insorgenza e la guerra in Iraq – che ha
cominciato ad attrarre anche combattenti stranieri – soprattutto e per
il 95% dai paesi intorno – grazie al suo messaggio estremistico e
fondamentalista. La guerra però è locale, per il controllo di
territori, si innesta in una lotta per il controllo delle risorse
contro elite che hanno dominato in due paesi in modo autocratico.
- Il
fondamentalismo salafita estende il conflitto oltre confine per due
ragioni: per combattere la jihad contro ebrei e crociati (come voleva
anche Al-Qaeda) e per attrarre giovani dall'estero – ed è in questo che
il terrorismo islamico fa presa sui giovani islamisti nei paesi
occidentali e anche non islamisti (ma sono ancora un numero davvero
esiguo). Ha comunque ragione Jean Daniel a dire che è la mistica della
purezza ad attrarre combattenti: “la jihad di oggi è figlia della
radicalizzazione dell'islam che ha prodotto frustrazioni. La promessa
dell'aldilà fa sì che i ragazzi siano pronti a morire per questo” (ma è
anche il messaggio apocalittico). Però c'è dell'altro.
2. Conflitto che è guerra o conflitto sociale mascherato
2.1. Uccisi e uccisori
Quello
che si combatte in Siria ed Iraq – nonché in Libia, Somalia, Yemen – è
certamente una guerra, un conflitto vero, con morti e feriti. Il
fondamentalismo attrae combattenti fanatici, anche solo poche decine di
migliaia ben armati possono controllare territori estesi e desertici.
Si radica in territori che sono già a presenza sunnita conservatrice –
popolazioni agricole molto arretrate, sono le aree più povere – ma
fanno pulizia etnica e prefigurano sistemi di potere “medievali” (ai
nostri occhi) anche se con un loro interesse per l'amministrazione dei
territori occupati. Eppure, attirano giovani da molti paesi dove
l'islam non offre prospettive e dove vivono in condizioni precarie.
Chi
sono gli occidentali che vanno a combattere come foreign fighters? La
maggioranza dei combattenti stranieri dell'ISIS – cioè non iracheni e
siriani – proviene da altri paesi islamici (Tunisia, Arabia Saudita,
Cecenia, Marocco, Libano, Turchia, Giordania, Uzbekistan e Pakistan) ma
ve ne sono anche da Francia (1200), Germania (700), Belgio (440), Gran
Bretagna (600), Svezia (300), Danimarca (150) e anche Italia (80). La
stragrande maggioranza di questi sono immigrati di prima o seconda
generazione, che non si sono mai veramente “integrati” e vivono ai
margini, nelle banlieue.
Ha detto bene Francesco Pecoraro: «Ragazzi
arabi con poca istruzione, senza soldi e senza lavoro o con un lavoro
di merda, ragazzi schizofrenizzati dal conflitto tra cultura di
provenienza e cultura di approdo, dove pure sono nati e di cui parlano
perfettamente la lingua, cultura di cui hanno studiato almeno gli
elementi essenziali, ma senza riuscire ad assimilarli e senza farsene
assimilare (perché?), fino al colpo di coda dell’estraneità di ritorno,
al rigurgito dell’appartenenza e del dettato religioso, dunque fino al
Rigetto. Ragazzi senza futuro, incagliati in un presente per loro
immutabile, ragazzi incapaci di compiere il passo necessario alla
mescolanza con Europa, che pure (ma solo a certe condizioni) può
completamente accogliere, ragazzi senza visione dell’avvenire, ragazzi
con barbe islamiche, ragazzi di cui non frega a nessuno sono disposti a
morire pur di fare strage di altri ragazzi come loro, ma diversi perché
istruiti, sofisticati, sostanzialmente integrati, completamente
consenzienti al sistema e tuttavia ornati di deboli orpelli oppositivi.
Ragazzi europei belli levigati creativi, super-qualificati, con buone
prospettive di lavoro e quasi sicuramente un futuro, ragazzi con
dottorato alla Sorbona e barbe e baffi e capelli da hipster, che si
muovono disinvolti attraverso le frontiere ormai virtuali d’Europa,
ragazzi che coltivano liberamente i loro rapporti, che non hanno regole
sessuali, ragazze prive di alcun senso di minorità, libere, che ti
guardano dritto negli occhi, ragazzi protetti dall’Occidente, di cui
sono la crema e probabilmente i futuri dominanti. Ragazzi scelti con
cura per queste loro caratteristiche, poi aggrediti e ferocemente
uccisi come un branco di gnu.» Non sono questi i termini del conflitto
sociale che torna prepotente e trova sfogo in manifestazioni nuove di
antagonismo? Questo è un conflitto di classe, che l'Europa
capitalistica non ha saputo finora arginare e controllare e che ora,
con lo smantellamento dello stato sociale, si sta rendendo più acuto.Il
conflitto sociale, conflitto di classe, oggi è diventato a volte
inter-religioso, inter-etnico, inter-culturale – il conflitto
sociale sfocia in un conflitto diverso, quello religioso, e viene usato
per altri scopi alimentandolo.
2.2. “Noi” e “loro”
Andrea Bajani, in un bell'articolo
sul manifesto di qualche giorno fa, ha parlato di “malattia auto-immune
dell'Occidente”. «Se la retorica del nemico, dell’altro da noi, è
l’ordinaria procedura retorica d’emergenza, è dentro il corpo
dell’Occidente capitalistico che varrebbe la pena dare un’occhiata.»
«L’Occidente ha costruito giorno dopo giorno un organismo che si
reggeva su pochi fondamentali elementi: il profitto a tutti i costi, la
superiorità arrogantemente identitaria della ragione, la tecnologia
come via privilegiata e remunerativa verso la cosiddetta libertà, e il
trionfo di una sorta di prepotente evoluzionismo democratico, ovvero
l’idea che quello che non è come noi è inferiore a noi. Tutto ciò si è
concretizzato in una pratica quotidiana fatta di sfruttamento del
pianeta, morte di migliaia di persone innocenti in quasi ogni zona non
allineata del mondo, tutte vittime collaterali di procedure mirate al
profitto: la corsa agli armamenti, ai giacimenti petroliferi, alle
materie prime, imprescindibili nella transazioni che nutrono il corpo
del mondo in cui viviamo». «Nel quotidiano, abbiamo avuto la sbornia
tecnologica, l’idea lisergica che libertà è dimenticare tutto quello
che succede fuori, è chiudersi a chiave in un narcisistico suicidio
collettivo, è l’abolizione di qualsiasi utopia. L’utopia. E proprio
dell’aver rinunciato all’utopia che paghiamo lo scotto. Abbiamo pensato
di poterne fare a meno, abbiamo pensato di esserne il coronamento, la
realizzazione, e l’abbiamo messa in cantina. Ci siamo dimenticati che
senza un pensiero utopico, senza un progetto collettivo – politico o
religioso – che canalizzi e dia senso all’agire dei singoli, ciascuno
resta solo e il mondo si ammala. Si ammala per una ragione tanto
semplice quanto banale. Perché si ammala il tempo: il futuro scompare e
il passato diventa inservibili e, buono per le ricorrenze. L’Occidente
capitalista ha sostituito l’utopia, che è un — per quanto chimerico —
punto d’arrivo, con la ricerca del profitto, che è solo un processo.
Dell’utopia si è tenuto la retorica, proponendo la Felicità come
ricompensa di ogni esborso in denaro, di ogni merce acquistata.»
Lo scontro non è tra noi e loro, ma semmai sono alcuni di loro che hanno preso di mira alcuni di noi.
Ma, di nuovo, è scontro sociale. Chi sono quei noi? Come ha detto
Didier Peron, «La popolazione colpita dai terroristi dell’Isis era
l’idealtipo del giovane urbano cool che di sera riempie i caffè, i
locali e le sale da concerto della capitale. Bisogna conoscere bene le
abitudini sociali e il valore simbolico dei luoghi per non attaccare un
feudo turistico (Beaubourg, gli Champs-Elysées, il Louvre) o un’enclave
comunitaria (il Marais gay o il XIII arrondissement cinese), ma una
zona al tempo stesso borghese, progressista e cosmopolita, certamente
in corso di hipsterizzazione avanzata.» È un terrorismo che colpisce
con cognizione, non alla cieca, mascherando una contrapposizione
sociale evidente.
3. Immigrati e terrorismo. Come rispondere
Di
tutte le migliaia, centinaia di migliaia di persone che sono immigrate
in Europa quest'anno, la maggioranza provenivano dalla Siria, a loro
volta provenienti dai paesi intorno. Sono questi tutti potenziali
“terroristi”? Ovviamente no. Stiamo parlando dei fatti di Parigi e
anche del cosiddetto “terrorismo” – non facciamo di tutta un'erba un
fascio – il problema dei migranti e dei rifugiati non c'entra nulla con i fatti di Parigi.
Solo nel 2015, ben 700 mila persone, secondo l'ONU, sono entrate in
Europa, 562 mila dalla Grecia e 140 mila dall'Italia. Di questi, ben
3210 sono morti nell'attraversamento del Mediterraneo. Quelli
provenienti dalla Siria rappresentano il 64%. Chi sono? Sono forse i
militanti salafiti che vengono ad installarsi da noi o a fare
proselitismo? No. Sono la classe media, quelli spazzati via dalla
guerra civile. Questi non sono immigrati che vengono qui a cercare
lavoro e poi se ne tornano a casa.
Eppure, non siamo stati ad
accogliere i migranti e i rifugiati a braccia aperte. Un sondaggio di
fine ottobre – prima dei fatti di Parigi – ripreso da Le Monde
riportava che ben il 46% dei francesi e degli inglesi riteneva che non
bisogna accogliere i rifugiati che fuggono la guerra e la miseria,
contro il 39% degli olandesi, il 32% dell'Italia e il 21% dei tedeschi.
I francesi non li volevano, “ce ne sono già troppi”, dicevano. Ma i
terroristi, l'abbiamo visti, non sono stati reclutati tra i migranti ma
tra i figli di quelli già immigrati, mai integrati, mai accettati dal
resto dei francesi. Il multiculturalismo ha fallito? No, anche gli
inglesi in buona parte non vogliono rifugiati...
Un ulteriore
aspetto riguarda una questione che molti fanno fatica a porre: sono i
terroristi o comunque coloro che perpetuano questi assassinii “veri”
musulmani”? Sì, lo sono, ma non per questo tutti i musulmani sono
assassini, ovviamente. E non per questo l'islam è intrinsecamente
violento, come qualche commentatore occidentale sostiene (v. ad es. Tavakoli). Cosa dire allora della grande tradizione storica della tolleranza islamica (ricordata, ad es. da Pickthall)?
C'è anche chi sostiene che fondamentalismo e terrorismo sono
intrinsecamente legati (v. ad es. Rausch). Quello dell'ISIS è un islam
fondamentalista puro, come detto. In ballo, per quelli di ISIS, c'è la
guerra alla modernità. Quelli di Al-Qaeda colpivano in nome della lotta
alla tirannia occidentale e sionista. Quelli di ISIS colpiscono in nome
della jihad, vogliono l'apocalisse. Lo fanno con un linguaggio arcaico
- “colpisci con la pietra, avvelena i pozzi” – ma usando le moderne
tecnologie – l'auto, il telefono, internet –. Questo è uno scontro tra
la modernità e l'anti-modernità. L'islam nel suo complesso fatica a
fare i conti con il fondamentalismo (come anche il cristianesimo
farebbe) perché i principi invocati sono i medesimi. È il problema di
una religione che non ha saputo evolversi con i tempi e gli stati e i
paesi musulmani non hanno saputo fare i conti con la modernità.
Che
fare: reprimere l'islam? Espellere tutti i musulmani? Avrebbero queste
azioni forse un senso? No, ovviamente. Perché non favorire l'evoluzione
democratica ed economica dei paesi musulmani, invece di fare gli
apprendisti stregoni con i loro despoti e di andare poi a bombardarli?
Non possiamo accettare che la reazione sia la stessa che vi fu dopo
l'11 settembre 2001, non porterà da nessuna parte se non ad una
reazione ancora più sconsiderata (si deva l'appello sul manifesto di venerdì 27 novembre, “contro la guerra non si può restare in silenzio”, a firma di Etienne Balibar e altri).
Da leggere
Sui
fatti di Parigi, a caldo: Sandro Moiso, Prima
che tutto accada,
Carmillaonline,
14 novembre 2015; Alessandra Daniele, Crepuscolo,
Carmillaonline,
14
novembre 2015.
Su
cosa fa l'ISIS a Raqqa e in Siria, David Remnick, Telling
the Truth About ISIS and Raqqa,
The
New Yorker,
22 novembre 2015. «
L’organizzazione Raqqa is Being Slaughtered Silently è sotto
costante minaccia da parte dell’ISIS poiché riporta
clandestinamente informazioni su quello che accade nella città
siriana. ».
Rischi
di guerra civile nelle banlieue? Raffaele Alberto Ventura, L'ipotesi
della guerra civile,
Prismo,
17 novembre 2015. «
I terroristi non sono lupi solitari ma pesci che nuotano nell’acqua
del risentimento che si cova nelle banlieue. Adesso il rischio è
che s’inneschi una spirale di violenza che potrebbe contagiare
l’intero corpo sociale.»
Come
reagire di fronte alle comunità islamiche in Europa? Andrea Zhoz,
Dopo
il Venerdì 13 della Francia,
Scenari,
24 novembre 2015.
Sulla
reazione ai fatti di Parigi e i migranti: Andrea Inglese, Il
limbo di Calais e la politica cinica dello scoraggiamento,
Alfabeta2,
20 novembre 2015
Sull'ISIS
e il terrore islamico: Giovanni Tomasin, Al
cuore del nulla,
Scenari,
20 novembre 2015.
Sull'ISIS:
Scott Atran, Nafees Hamid, Parigi: La
guerra che l’Isis vuole,
451online
(da The
New York Review of Books),
senza data.
Sul
ruolo dell'Arabia Saudita: Kamel Daoud, Saudi
Arabia, an ISIS that made it,
The
New York Times,
20 novembre 2015.
La
reazione agli attacchi terroristici: 25 anni dopo, la storia si
ripete e non abbiamo imparato nulla. Perché, questa volta, non ci
opponiamo? Alessandra Daniele, Groundhog
war,
Carmillaonline,
22 novembre 2015.
Sulla
rappresentazione dell'islam da parte dei media occidentali: Rinaldo
Capra, Verrà
l'Islam e avrà i tuoi occhi,
Carmillaonline,
25 novembre 2015.
Si veda anche l'interessante articolo su islamofobia e razzismo di Arun Kundnani, One of “them” or one of “us”? Versoblog, 17 novembre 2015.
- C'è
un film di Nicolas Boukhrief che doveva uscire in Francia il 18
novembre 2015 e che è stato bloccato: questa è la sua locandina.
Si veda l'articolo su Huffington
Post.
