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Ipocrita Europa! Questa sì che è Euro-sclerosi

domenica 26 gennaio 2014
[In questo giorno sono nati, tra gli altri,  Angela Davis e Pino Masi. Nel 1855 morì Gérard de Nerval a 47 anni e, nel 2007, Emanuele Luzzati, nato nel 1921
]

Questo articolo è uscito in due riprese su Sbilinfo con i titoli
L'Europa ipocrita e l'Euro-sclerosi e L'Euro-sclerosi e la decrescita infelice

Forse in pochi ricordano un termine venuto di moda in certi circoli negli anni '80 – Euro-sclerosi – per indicare un mercato del lavoro "sclerotico", come fossero le arterie otturate della vecchia Europa, a fronte di un'economia comunque in crescita che non lasciava fluire i lavoratori dentro e fuori, a differenza di quello americano a quel tempo più "dinamico". Ne parlarono Olivier Blanchard e Larry Summers, allora "giovani economisti" promettenti, in un famoso articolo del 1986 sull'isteresi della disoccupazione europea (agli economisti è sempre piaciuto rifarsi ai fisici e prenderne a prestito i termini con ben altro significato). L'Euro-sclerosi come sinonimo di alta disoccupazione e bassa mobilità. Non che gli Stati Uniti stessero poi così meglio, a quel tempo, e con il senno di poi lo si può ben dire, visto che il productivity slowdown cominciato alla fine degli anni '70 faceva ancora sentire i suoi strascichi. E, anche lì, giù a dare la colpa al mercato del lavoro! Gli anni sono passati, e di acqua sotto i ponti ne è passata al punto di allagare, esondare, ritirarsi in siccità e cambiare il mondo.

Oggi siamo nel mondo del post, dal postmoderno al post-capitalismo, al post-comunismo (quello ce lo siamo già dimenticati). La globalizzazione ha spazzato via tutto, dopo la crisi finanziaria delle tigri asiatiche (1987), il crollo del muro di Berlino (1989) e delle economie sovietiche (1991), le terapie shock (1991-96), la bolla del dot com (1999-2000), la bolla immobiliare (2004-07), la crisi dei sub-prime (2007-08). A quel tempo la Cina era ancora un nano, oggi è l'Orco dell'economia mondo. E se quella Euro-sclerosi appare lontana come fosse un'altra era geologica, le arterie della vecchia Europa si sono di nuovo intasate. Ma questa volta, potremmo dirlo, non sono quelle del mercato del lavoro: sono quelle dell'Economia e dei suoi Signori e dei suoi Governanti. L'Euro-sclerosi ha il suo ceppo infettivo a Brussels, nelle stanze Palazzo a Stella della Commissione Europea, in quelle della Eurotower di Frankfurt, e in vari altri Importanti Centri di Potere.

Per una crisi che da più parti è stata riconosciuta come "la più grave dai tempi della Grande Depressione", tanto che molti la chiamano la Grande Recessione, quali politiche, quale grandioso disegno è stato concepito? Nessuno. Non me la faccio con i "politici", qui, che oggi è come sparare a un uomo morto, ma con i loro ispiratori. Se fu Franklin Delano Roosevelt a portare avanti il New Deal, contro l'opposizione feroce dei conservatori cui dovette concedere molto – come ad esempio la non universalità della copertura della spesa sociale che esso inaugurò – furono pensatori come John Maynard Keynes e Lester Ward e tutto il pensiero progressivo americano a tracciarne le linee guida ispiratrici. Non solo una politica fiscale espansiva (possibile che ancora l'insegniamo ai nostri studenti, come caso da manuale, e si faccia tanta fatica ad accettarne la possibilità?), ma uno Stato che si prende cura dei suoi ceti più deboli, sulla base non solo di un principio economico – sono consumatori anche loro: dategli un salario e lo spenderanno – ma di un principio di equità e giustizia. Lo stato sociale rooseveltiano fu il pendant americano dello stato sociale europeo, che partì da Beveridge e fu poi sposato dal Labour inglese nel dopoguerra e poi dall'Europa tutta, quella democristiana tedesca bismarckiana e interclassista italiana, quella universalistica francese. Sappiamo quanto in Italia anche l'esperienza comunista di governo degli Enti Locali abbia poi coniato stato sociale, logica inclusiva cooperativa e competitività d'impresa. Ma, si dice, quelle esperienze furono possibili perché "erano anni di vacche grasse". E tutto è poi degenerato nel "consociativismo" se non nel "clientelismo". E in ogni caso oggi non c'è trippa per gatti.

Il punto è che, comunque la si guardi, la più grave crisi da ottanta anni a questa parte non ha ancora trovato una chiave di lettura, una politica guidata da un principio ispiratore che porti al suo superamento. Non che manchino pensatori illuminati: è che non c'è consenso. La Grande Depressione ebbe un effetto devastante perché finì per colpire ceti medi, masse popolari e élites imprenditoriali, quasi a 360 gradi, di qua e di là dall'oceano. Certo, ci fu poi una guerra mondiale che se portò distruzione e morte a suo modo contribuì alla crescita – eccome – con la ricostruzione che ne seguì. E dopo la guerra il consenso verso le politiche espansive fu generalizzato.

Perché oggi non vi è consenso sulle vie di uscita dalla crisi? Non voglio qui affrontare un tema che non solo non saprei modestamente trattare in poche righe, ma che non sarebbe giusto liquidare in pochi paragrafi. Ma voglio però puntare il mio dito contro il furore ideologico che appanna l'odierno discorso pubblico, ormai universale. L'economia odierna è nelle mani di pochi – non un complesso pluto-giudaico-massonico d'antan – ma semplicemente una élite transnazionale che governa l'economia sovra-nazionale. È l'élite che governa quella parte dell'economia finanziaria che negli ultimi decenni è cresciuta a dismisura – e che è pari a n volte il valore dell'economia reale della produzione di beni e servizi. È l'élite dell'1%, i cui redditi e i cui emolumenti sono cresciuti fino a diventare cento, mille, diecimila volte maggiori di quelli del 99% della popolazione (dei paesi "avanzati" e non). È l'élite che regge le sorti di nazioni intere: il turn-over delle più grandi corporations multinazionali è pari oggi al PIL di non so quanti paesi, il capitale di quelle stesse corporations è nelle mani di poche centinaia di persone che non hanno nazionalità perché sono transnazionali. Ne hanno già parlato in molti – da Saskia Sassen a Zigmunt Bauman, da Guido Rossi a Paul Krugman, da Noam Chomsky a Mark Weinsbrot –. Questa élite è composta di americani, inglesi, tedeschi, italiani, cinesi, giapponesi, israeliani, finlandesi, svedesi, olandesi, finanche angolani, messicani, colombiani, brasiliani, indiani. Ha regolare passaporto (anzi più di uno), va a fare shopping nelle metropoli à la page, poi torna a casa nei weekend, regala ai figli l'ultimo I-phone e spende ovunque in valuta pregiata – non sono forse i beni di lusso che vanno fortissimo negli ultimi tempi? – . Perché mai questa élite è così influente? Perché può decidere di vendere con una sola telefonata metà del debito sovrano di un paese, metà delle azioni di una grossa banca, e mandare un'intera popolazione "in vacca", d'un colpo. Non paga le tasse, e dove gliele fanno pagare ne paga la metà dei suoi dipendenti. Ma, si dice, "crea ricchezza". Possiamo forse ostacolare la naturale dinamica del mercato capitalistico? Dove c'è innovazione c'è profitto, un enorme profitto, la finanza serve poi solo a moltiplicarlo.

Sono le 100 persone più ricche e influenti del mondo che contano (e guadagnano quanto il reddito di due miliardi di abitanti del pianeta terra). Il resto dell'umanità può solo accodarsi e sperare che si comportino bene e benevolmente. Per un Mark Zuckenberg che si compra una villa da 10 milioni a Palo Alto e tutte le ville intorno – per non avere fastidi con i vicini – ci sono mille, centomila che sono lì che smanettano con le loro app sperando di diventare ricchi. E meno male, dice l'Economist, così si favorisce la concorrenza. Il problema è però che l'economia si è fatta via via sempre più piramidale e ormai tra i più ricchi e i più poveri c'è una distanza che non si era mai vista dagli albori della storia, nemmeno ai tempi dei sovrani divini. È solo un mercato libero, vivace, dinamico, che può produrre innovazione e quindi ricchezza, questo è il mantra: tanta ricchezza per pochi e che quei pochi diventano ricchi non per volere divino né per eredità, ma perché "sono stati capaci". Questa è la religione del nostro tempo: per permettere a pochi "scelti a caso" – non "prescelti" – di diventare qualcuno, il prezzo da pagare è che tutti gli altri debbano poi sgomitare per sbarcare il lunario. È questa la vera democrazia dell'economia: non c'è più diritto divino né di casta ma solo il mercato che consente ai pochi di farcela (e che sia poi a scapito dei molti, è solo una triste conseguenza). Ci vorrebbe una postilla, in effetti: quanto sia veramente "democratico" il mercato delle possibilità, ma questa è un'altra storia.

La crisi di questi anni ha reso tutto questo evidente. Le praterie per questi nuovi eroi della frontiera sono lì davanti, sterminate, solo la finitezza del pianeta li potrà fermare ormai. Non i confini nazionali, non le regole, non i governi, le tasse, la polizia o la CIA. È solo il mercato che li può fermare. Non c'è più il potere di contrattazione dei lavoratori: se non ti va bene, prendo un altro, se non trovo un altro qui, cambio paese. Ma quali sindacati, ma quali politiche dei redditi! Se il tuo governo mi tassa troppo, io cambio sede al mio headquarter, vado dove più mi conviene. Mai come negli ultimi anni le multinazionali hanno fatto i profitti che hanno fatto (consultare le classifiche di Fortune e dell'Economist per rendersene conto). Certo, il buon vecchio capitale nuts-and-bolts fa ancora fare buoni affari – il turn-over delle Oil companies, della IBM, della Nestlè o della Monsanto è sempre considerevole – ma sono le internet-companies-plus-financial-innovators, è il superamento dei confini – nazionali, settoriali, economici – finalmente in libertà che ha sancito la definitiva conquista del West.

E noi comuni mortali? E i nostri pii governanti, comuni mortali anch'essi? Gli Olin Rehn, esimio politico finnico ora Commissario Europeo per gli Affari Economici e Monetari – sì, quello del "Rehn's Terror" di Paul Krugman, che sa anche essere spiritoso – sono anch'essi mortali comuni, non ambiscono a tanto e non possono che inchinarsi al dio del libero mercato. Di fronte a tanto squasso – nel 2009 la crisi finanziaria ha portato ad un crollo del PIL in tutta Europa – i governi sono dovuti intervenire massicciamente per salvare banche sull'orlo del fallimento – per aver giocato all'alta finanza, perdendoci – e la Commissione Europea si è inventata la "procedura speciale". La Banca Centrale Europea ha poi disegnato lo strumento. Per salvare le banche è stato concesso un deficit fino al 30% del PIL ad un solo paese (come all'Irlanda), per poi, certo, vedere nel giro di due anni il suo debito pubblico raddoppiare. Con il beneplacito della signora Merkel i cui funzionari hanno tenuto d'occhio l'andamento dei mercati, perché l'economia tedesca export-driven non subisse troppi contraccolpi (e perché le sue banche, così esposte sui debiti sovrani, non avessero a soffrire troppo). Ci hanno guadagnato, poi, in rendimenti, comprando a prezzi stracciati (e rendimenti altissimi) e vendendo una volta che era passata la bufera.

Che la "crisi" abbia poi messo in ginocchio le economie di mezzo mondo (senz'altro di mezza Europa), tra i diktat della Troika e le dismissioni, le vendite, le de- e ri-localizzazioni, la pressione dei mercati e via dicendo, non ha poi contato più di tanto. La disoccupazione è un fenomeno ciclico, dicono (loro), quando l'economia si riprenderà quella tornerà a calare. Se il debito è aumentato per via dei movimenti sui debiti sovrani (vendo di qua e compro di là, variano i rendimenti) e per salvare le banche poco importa, il deficit di bilancio e i vincoli di Maastricht non si devono comunque toccare. Per rientrare dal debito si deve tagliare. Dove? Forse dove si è speso? No, si deve tagliare la spesa "improduttiva", la spesa sociale, come se fosse quella la ragione dell'indebitamento crescente.

È stata forse concessa una procedura speciale per uscire dalla crisi con politiche espansive? No, perché quelle non lo meritano. Salvare le banche dal fallimento, sì, too big to fail (o forse, come ha detto qualcuno, too big to jail), aiutare le economie in crisi, no, non fa parte delle opzioni possibili. Quelle masse di milioni di disoccupati, precari, pensionati alla fame, quelle no, quelle non sono anch'esse il segno di un fallimento davvero too big.

È questa ipocrisia, questa sclerosi che va combattuta. Quale dovrebbe essere la ragione per cui l'economia dovrebbe uscire dalla crisi? È stata forse affrontata e risolta una sola delle ragioni che hanno portato alla crisi? E quale sarebbero le responsabilità della spesa sociale, della spesa per sanità, istruzione e protezione sociale, nell'avere portato ai livelli d'indebitamento attuali? Se il debito sovrano è oggi nelle mani degli "investitori" al punto che ne possono decretare d'un soffio il prospetto, non sarebbe forse più oculato mettere quel debito al riparo? Non sarebbe forse più saggio intervenire sul meccanismo diabolico del mercato che non si autoregola perché ivi vige la legge del gregge? Non c'è peggior ignorante di chi non vuol capire e di chi non capisce facendo finta di capire. Quanta ipocrisia, quanta sclerosi nel cuore della Vecchia Europa!

Ormai ci abbiamo fatto l'abitudine: sono tre, quattro anni che i nostri Governanti a Roma come a Brussels ci dicono che la crisi sta per finire, che "si vede la luce in fondo al tunnel" – ricordate Mario Monti che non si rendeva conto che la luce che vedeva non era che quel treno che lo avrebbe investito? – che "ci sono incoraggianti segnali di ripresa". Intanto anche, il 2014 si prospetta grigio, questa volta da -1.8% passeremo forse ad un più-zero-virgola (e però, anche le previsioni, quante volte sono state riviste al ribasso?). L'ultimo timido uno-virgola noi italiani lo avemmo nel 2007 rispetto al 2006 (dati Eurostat), un anno in cui comunque l'area Euro crebbe del +3.0% (con l'Italia, come sempre, che resta indietro). Dopo il crollo del 2009 e il "rimbalzo" del 2010, l'encefalogramma è tornato piatto. La Grecia sono sei anni che vede un segno meno, con una diminuzione cumulata del 25.7%: ciò significa che l'economia greca, in questi sei anni, si è ridotta di un quarto! L'Italia, al confronto, si è solo ridotta dell'8.8% … Nessuno, in Europa, ha fatto peggio di noi e degli amici greci.

Se la crescita non si vede, la decrescita è invece cominciata. Quella infelice, però, non quella di cui ci narrano Serge Latouche e i suoi seguaci italiani. Quella delle dismissioni, del precariato, delle ordinarie cronache di miseria, dei tagli alla spesa, delle spending review. Gli ultimi dati sulla disoccupazione in Europa pubblicati da Eurostat un paio di settimane fa riferiscono che in Novembre 2013 ventisei milioni e cinquecento mila donne e uomini nei 28 paesi dell'Unione erano ufficialmente disoccupati, cui vanno aggiunti i senza-lavoro che hanno rinunciato a cercarlo. La Grecia svetta per il più alto tasso di disoccupazione (27.4%), seguita dalla Spagna (26.7%). L'Italia, con un più modesto 12.7%, è comunque tra i quattordici paesi in cui il tasso, nell'ultimo anno, ha continuato ad aumentare. Tra gli under-25 la situazione è quasi drammatica: uno su quattro in Europa non trova lavoro, in Italia abbiamo raggiunto il 41.6% e in Grecia e Spagna sono mesi che ha superato il 50%!

Dall'inizio dell'ultima crisi, l'economia europea ha perduto 5 milioni di posti di lavoro (secondo lo European Jobs Monitor). Quello che si sta verificando nel mercato del lavoro è una polarizzazione della struttura salariale, con una perdita delle occupazioni nei salari mediani. Sono i salari alti che vedono poca disoccupazione e pochi licenziamenti e sono i salari bassi quelli per i quali si ha turn-over più frequente. Quelli con i salari medi, semplicemente, vedono chiudersi le porte del mercato per sempre, e la disoccupazione di lungo periodo aumenta.

Secondo i dati diffusi dalla CGIL, in Italia, i lavoratori in cassa integrazione a zero ore hanno superato il mezzo milione, e le ore erogate sono state più di un miliardo. La perdita stimata in termini di salario nel 2013 è stata di 4,125 miliardi di euro.

Se poi guardiamo dentro ai dati dell'occupazione vediamo che lavoro part-time e precario sono aumentati. Anzi, possiamo dire che l'unica forma di occupazione che vede un aumento consistente è quella. In Europa, tra il 2001 e il 2011, il lavoro part-time è passato dal 15.8% al 20.9% del totale (dati Eurostat). In Germania, più di un lavoratore su quattro è a tempo parziale, come in Danimarca, Austria, Svezia e Gran Bretagna (in Svizzera sono addirittura il 35% del totale degli occupati). In Olanda, uno su due sono part-time! In Italia, la quota è quasi raddoppiata nel decennio, passando dall'8.4 al 15.5%. Da notare che la grande maggioranza dei lavoratori part-time sono donne (in Olanda l'80% delle donne ha un contratto a tempo parziale). Il lavoro part-time non è sempre negativo, perché concede elasticità anche ai lavoratori. Purtroppo, però, finisce per associarsi a tassi salariali inferiori, a parità di mansioni, e instabilità contrattuale, oltreché, naturalmente, a redditi da lavoro inferiori. E, di fatto, configura sotto-occupazione, non vera occupazione.1

I dati sui fallimenti e sulle imprese che chiudono non sono meno allarmanti. Il "bollettino di guerra" della Grande Recessione riporta che il 2013 in Italia si è chiuso con 14.296 fallimenti, il 14% in più rispetto al 2012 e più del doppio del 2009. In cinque anni hanno chiuso i cancelli in Italia quasi 60 mila imprese e il 2013 ha visto solo un peggioramento.

Però, riportano i giornali, le agenzie di rating premiano i casi virtuosi, e sono tornate a dare la promozione all'Irlanda, dopo il salasso subito, che così ora si è liberata dallo status di "quasi spazzatura" per i suoi bonds e gli investitori possono così tornare a Dublino e bere Guinness. Il tasso di disoccupazione nella verde ex tigre europea, che nel 2001 era un bel 3.9% – quando in Italia era al 9% – nel 2012 era salito fino al 14.7%. Il peggio è passato, dicono, anche se il debito pubblico – accumulatosi solo dopo il 2008 per far fronte alla crisi finanziaria – è il quarto in Europa, vicino al 124% del PIL. E la crescita dell'economia è ancora troppo lenta per invertire la rotta. Quello che queste statistiche non rivelano è che l'Irlanda è tornato ad essere un paese di emigranti. Dal 2008, più di 50.000 irlandesi se ne sono andati ogni anno e in sei anni sono già più di 450.000 quelli che hanno lasciato il paese (su una popolazione di quattro milioni e mezzo di abitanti), come avevano fatto i loro nonni.

La decrescita infelice è pervasiva. Le ultime statistiche europee riferiscono che un cittadino europeo su quattro è a rischio di povertà o esclusione sociale (ovvero o è povero o è in una condizione molto vicina alla povertà e che rischia di diventare tale). Il dato (riferito al 2012) è impressionante. In Italia, i poveri o quasi-poveri sono poco meno del 30%. Peggio di noi stanno i greci, i croati, bulgari e rumeni, lettoni, lituani e ungheresi. Il fatto è che in Italia un minorenne su tre è povero o a rischio di povertà! Per avere un'idea, si consideri che la "soglia" sotto alla quale si rientra nella categoria è, per l'Italia, di 9.617 euro annui di reddito. Ciò significa che ci sono 15 milioni di italiani che (sopra)vivono con meno di diecimila euro l'anno. Uno scandalo. "Living standards are falling in most Member States", titolava lo scarno bollettino di Eurostat di qualche mese fa.

Certo, la politica può fare qualcosa, non solo promettere. Trasferimenti sociali e sussidi sono un modo. Il tasso di povertà ed esclusione sociale misurato per l'intera UE dopo i trasferimenti segna un calo di quasi nove punti, dal 25.9% al 17%. In Italia, il calo è di appena cinque punti, perché come è noto l'Italia è tra i paesi dell'Unione che spende meno per anziani, malati e per la lotta alla povertà e all'esclusione sociale. Eppure si continua a dire che la spesa sociale è troppo alta in Italia. Secondo i dati OECD, la spesa sociale complessiva ha raggiunto il 28.3% del PIL nel 2013 (era il 25% nel 2006, ma il PIL era maggiore, allora). Di più spendono Belgio (30.7%, Danimarca (30.8%), Finlandia (30.5%), Francia (33%) e Svezia (28.6%).

Anche la diseguaglianza, al pari della povertà, è in continuo aumento in Europa e dal 2000 non è mai calata. Il rapporto tra il reddito del 20% più ricco della popolazione e quello del 20% più povero è ora arrivato al 5.1: in Italia è al 5.5, in Spagna al 7.2 e in Grecia al 6.6, mentre in Francia e Germania è ancora al 4.4. Afferma un rapporto di Oxfam del settembre scorso:

European austerity programmes have dismantled the mechanisms that reduce inequality and enable equitable growth. With inequality and poverty on the rise, Europe is facing a lost decade. An additional 15 to 25 million people across Europe could face the prospect of living in poverty by 2025 if austerity measures continue.

Eppure, the great malaise drags on, come titolava l'articolo di Stiglitz uscito qualche giorno fa su Social Europe: "Abbiamo evitato una Grande Depressione solo per ritrovarci in un Grande Malessere". E cosa fanno i nostri Governanti? Aspettano, incapaci di mettere in discussione i dogmi cui hanno aderito, fiduciosi che i mercati e l'economia si rimetteranno in moto. I mercati non si sono mai fermati, se è per questo, e questo è proprio il risultato. La pressione della globalizzazione e dei mercati finanziari non lascia scampo, altro che "austerità espansiva". Quanta ipocrisia in quelle facce sorridenti nella foto di gruppo del luglio scorso a Parigi: "EU leaders promise jobs for 'lost generation' of youth", titolavano le agenzie. Hanno concesso lo sforamento del vincolo di bilancio per salvare le banche e non trovano il coraggio di consentire politiche espansive e fermare i tagli alla spesa sociale che potrebbero fermare il devastante impatto sociale della crisi. Sei miliardi di euro messi in piano per i prossimi anni per "occupazione e formazione". "È cruciale agire in fretta", ha affermato Hollande al termine del summit, "non possiamo abbandonare un'intera generazione... abbiamo bisogno di posti di lavoro e formazione per dare ai giovani reali prospettive". Il buon Marcello De Cecco, come molti altri ormai, ricordava qualche giorno fa che senza rilanciare la domanda interna l'economia non riparte.

I nostri leader sono malati di Euro-sclerosi. Non sanno che stringersi nelle braccia pensando che "stanno facendo la cosa giusta" aderendo alle regole di Maastricht e che se l'economia non riparte, se le industrie non creano posti di lavoro loro non ci possono fare nulla. E sì che potrebbero! Come si posero i Roosevelt di fronte alla Grande Depressione, forse guardando al loro vincolo di bilancio? E non siamo forse di fronte ad una deprimente grande recessione che vede progressivamente accentuarsi le disparità e diminuire gli standard di vita per la maggioranza della popolazione? Loro, i nostri Governanti attuali, sanno solo sperare che l'economia si riprenda...

Presi per il collo dai famosi investitori – "ora che la crisi è passata, dovete ridurre il debito, altro che aumentare la spesa pubblica!"2 – i Signori di Brussels e i loro pari nelle capitali d'Europa si affidano al mantra dell'austerity confidando nella buona sorte. Non è tanto la BCE da prendere per il bavero – anche se è pur vero che la sua politica è contrattiva, non espansiva, come dimostra la contrazione della base monetaria in Europa,3 altro che quantitative easing! – quanto i signori della Commissione, gli avvocati del rigore – sulle spalle dei meno abbienti – e gli eterni sostenitori del laissez faire: lasciateci fare, lasciateci prosperare, ai meno fortunati penserà la nostra caritatevole azione, dove c'è un bisogno sarà il mercato che saprà trovare un occasione di soddisfarlo, purché lo si lasci fare. Eppure, studi di fonte insospettabile già riportano che "coordinated austerity in euro-area countries has stifled economic recovery and deepened the crisis across the currency bloc". Non è Krugman a dirlo, ma un recente rapporto di un economista della Commissione Europea, Jan in 't Veld.4

Non è che non vi siano strade alternative, quindi, è che non si vogliono prenderle. L'Europa sclerotizzata muore delle regole che si è date, incapace di reagire.

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Note al testo

1 Si veda "The underemployed part-time work in Europe", Inequality Watch, 14 February 2013.

2 "Insight: Ireland's bailout report: Good, now fix public debt!" Reuters, 22 ottobre 2013.

3 Si veda il grafico pubblicato dalla BCE.

4 "Fiscal consolidations and spillovers in the Euro-area periphery and core", Economic papers, DG Economic and Financial Affairs, October 2013.