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domenica 21 ottobre 2018
[in questo giorno, nel 1998, Massimo D'Alema, del PDS, diviene
Presidente del Consiglio dei Ministri, primo "ex comunista" a ricoprire
quel ruolo in Italia]
[Questo articolo è stato pubblicato sulla pagina web dell'Istituto Cattaneo]
Il 26 ottobre alle 17.30,
presso la sala del Museo della Musica in Strada Maggiore 34 a Bologna, si terrà
un incontro organizzato dall’Istituto Cattaneo per discutere di Nuova sinistra e vecchie disuguaglianze
con Stefano Bonaccini, presidente della Regione Emilia-Romagna, Gianni Cuperlo,
membro della direzione PD e Piero Ignazi, politologo. Condurrà Giovanni Egidio,
capo-redattore di Repubblica Bologna. Un’occasione, questa, per discutere di
politica ed economia, di cosa ha fatto e non ha fatto la sinistra in questi
anni per affrontare il tema delle disuguaglianze che oggi, secondo tutti gli
indicatori statistici, sono ancora alte, crescenti e evidentemente, reclamano
soluzioni.
Le elezioni del 4 marzo
hanno visto un calo dei consensi del PD – dai 12 milioni di voti del 2008 ai 6
milioni del 2018 – mentre la sinistra “radicale” ha raccolto un consenso di
testimonianza, destinato all’irrilevanza. Da molte parti, di fronte alla
crescita di M5S e Lega, si è quindi detto che la sinistra dovrebbe “rinnovarsi”,
perché non rappresenterebbe più, e da tempo, i lavoratori, i ceti popolari, i
“perdenti della globalizzazione”. E perché non avrebbe più messo al centro
della sua azione politica l’equità, la redistribuzione del reddito e della
ricchezza e l’eguaglianza, quello che doveva fare parte del suo “DNA”
originale.
Una “nuova” sinistra?
Non vogliamo qui entrare
nel merito di un dibattito squisitamente politico sul quale, al più, potremmo
esprimerci come osservatori. Tutti hanno parlato della necessità di “ripartire”
– alcuni addirittura “da zero”, come esprime il titolo della iniziativa tenutasi il 7
aprile 2018 a Roma – e in
molti e da più parti si è sottolineata l’esigenza di una “nuova” sinistra (citiamone
uno per tutti, Veltroni: “Non chiamiamoli populisti:
contro questa destra estrema è l'ora di una nuova sinistra”, Repubblica, 29
agosto 2018). Al di là
dell’inevitabile riduzione della complessità che una discussione politica
“schiacciata” sull’attualità finisce per imprimere ad una riflessione che
dovrebbe comprendere visione di fondo, ideali di riferimento, strategie politiche
di medio e lungo termine e quant’altro, ciò che ha sorpreso molti commentatori
e studiosi è la superficialità del dibattito, l’assenza di riferimenti teorici
e filosofici e la mancanza di modelli di riferimento – o l’idea di doverne
definire dei nuovi – che si è accompagnata all’affermazione del bisogno di
qualcosa di “nuovo”, qualunque cosa questo significasse.
Le proposte portate alla
discussione hanno spaziato dall’esigenza di “tornare al socialismo”, “riscoprire Marx”, “riscoprire il populismo”, “rifondare il centro-sinistra”, “tornare a rappresentare le classi
subalterne”, tornare a “fare la sinistra, oltre la terza via”, “riprendere la prospettiva riformista”, fino al “fronte repubblicano anti-populista e
anti-sovranista”. Per una
sinistra oggi ridotta a minimi termini elettorali – ma ancora ben presente nei
governi regionali e locali – e quanto mai frantumata in correnti o aree di
partito e formazioni politiche sempre molto auto-referenziali, parlare di
“nuovo” appare ambizioso e forse anche velleitario, quando ancora non è
maturata una riflessione approfondita sulle cause che l’hanno portata alla
situazione attuale, sulla società italiana e globale e i suoi mutamenti che la
sinistra non sarebbe stata in grado di “intercettare” e su quali modelli e
quali prospettive essa voglia offrire. Auspicare una nuova identità o nuovi immaginari o anche solo una prospettiva
progressista è legittimo e auspicabile, ma questi saranno tanto più effettivi,
convincenti e aggreganti, tanto più sapranno affrontare le sfide della società
“liquida”, delle nuove composizioni di classe non più fondate sul lavoro, della
società globale degli Stati-nazione sempre meno identitari sotto i due pesi
contrapposti delle istituzioni sovra-nazionali e dei “mercati” anch’essi
sovra-nazionali e globali. E affrontare alla radice problemi come quello delle
disuguaglianze – ampie, diffuse e crescenti – che dal piano dei redditi a
quello dell’accesso e delle opportunità caratterizzano tutte le attuali società
post-industriali.
Se c’è un tema, un
insieme di questioni, sul quale in molti sembrano essere d’accordo è quello
della rappresentanza dei cosiddetti ceti
popolari, della tutela dei diritti, dell’eguaglianza e dell’equità, che la
sinistra non avrebbe più come baricentro della sua iniziativa, “una sinistra
che si sposta verso il centro, che insegue Blair, che diventa
liberal-democratica e sposa supinamente il mercato” (Enrico Rossi). Afferma Fabrizio Barca: “È da almeno 25 anni che vediamo un’incapacità
progressiva della sinistra di rappresentare le classi subalterne della società,
gli ultimi, i penultimi e i vulnerabili”. Perché il fatto è che proprio nel
momento in cui “le disuguaglianze sono al massimo, la sinistra è al minimo” (Carlo Galli). Perché questo? Perché “la sinistra si è persa”
(Giuseppe Provenzano): “Nel momento esatto in cui esplodevano intorno
a noi le più grandi diseguaglianze, e questo ci faceva scivolare nella crisi
peggiore della nostra storia, noi dicevamo, alla fondazione del Pd, che non
c’era più il conflitto tra capitale e lavoro, tutti uniti in nome di
un’innovazione astratta come fosse un valore in sé che perdeva ogni
qualificazione o connotazione sociale”.
E le vecchie e note disuguaglianze
Se è pur vero che nell’ultimo
quarto di secolo si è assistito ad un cambiamento radicale della tradizionale
struttura di classe delle società industriali mature con la conseguente “trasformazione
delle disuguaglianze” – anche le disuguaglianze non sono più quelle di una
volta –, è altrettanto vero che la “crisi della sinistra incrocia problemi
vecchi come la distribuzione della ricchezza e nuovi come l’identità dei
soggetti politici nella società contemporanea” (Aldo Carra). Sì, è vero, il Rapporto Istat sulla situazione
sociale dell’Italia del 2017 affermava che “la progressiva frammentazione del
tessuto sociale ha portato nel tempo a un’attenuazione del concetto di
‘classe’, quale che ne sia la definizione o il campo teorico di riferimento… [e
ha] comportato, dal punto di vista delle soggettività, un effetto rilevante sul
senso di appartenenza e sull’identità sociale” (Rapporto Istat 2017, Sintesi, p. 4). Ma ciò non toglie che oggi ci troviamo di
fronte alle vecchie e note disuguaglianze di reddito e di ricchezza, tra nord e
sud, tra “figli dei ricchi e figli dei poveri” per le opportunità che sono loro
offerte, più evidenti e macroscopiche di prima. Quelle disuguaglianze non sono
mai sparite, né sono diminuite, anzi si sono accentuate.
Negli ultimi 30-35 anni
la disuguaglianza nella distribuzione del reddito è aumentata in Italia più che
negli altri paesi OCSE (meno la distribuzione comparata della ricchezza).
Questo non è stato dovuto alla crisi iniziata nel 2008 (che certo non ha
favorito un’inversione di tendenza, come vedremo sotto). I dati ISTAT recenti
dicono che l’indice Gini sul reddito “primario, di mercato” è 45.2, cioè 41.5
al Nord, 47.7. al Sud. È qui che si deve intervenire: perché il reddito “di mercato” è
così diseguale? Non bastano le politiche redistributive, è a monte che
si deve agire. L’indice Gini sul reddito disponibile (al netto di trasferimenti
e prelievi) è invece più basso ed è pari a 30.1, ovvero 27 al Nord e 30.7 al
Sud. Questo ci dice che l’intervento pubblico è importante, perché
riduce la diseguaglianza di 15.1 punti (più trasferimenti che prelievi,
però).
Uno dei problemi è che il
reddito primario, per i più poveri, è costituito soprattutto da pensioni.
Intervenire sulle pensioni è dunque problematico. Il reddito, dopo l’intervento
pubblico, si riduce però soprattutto per i giovani, per i quali aumenta il
rischio di povertà. Al contrario, l’intervento pubblico abbatte drasticamente
il rischio di povertà delle famiglie anziane.
L’andamento degli ultimi lustri
ci mostra che il reddito disponibile delle famiglie si è ridotto in media del
12% tra il 2000 e il 2016 (dati Banca d’Italia). Ovvero, la crisi italiana viene da
lontano: è una crisi di produttività del sistema, la ricchezza prodotta non
cresce più. Inoltre, come ha argomentato di recente Massimo Baldini, “i dati Eurostat sulla distribuzione del
reddito dicono che la disuguaglianza in Italia è aumentata durante la crisi”. Se
la crescita dei primi anni duemila aveva provocato un calo della disuguaglianza,
la crisi iniziata nel 2008 ha portato ad un suo successivo aumento. Tra
il 2008 e il 2016, il reddito medio si è ridotto del 12%. La riduzione
però è stata nettamente più marcata per i più poveri (primo
decile) che hanno subito una riduzione del loro reddito medio di un terzo,
mentre i più ricchi hanno visto ridursi il loro reddito medio di circa il 12%. La
crisi economica ha colpito maggiormente le fasce più deboli. Il divario
tra ricchi e poveri è aumentato – sottolinea Baldini – soprattutto a causa del
crollo dei redditi più bassi.
E la sinistra, dov’era?
Tutto questo è successo
in anni che sono stati difficili per l’economia e la società italiana.
Ricordiamo che dopo l’inizio della crisi finanziaria ed economica, l’UE adottò
politiche di bilancio tese a sostenere il sistema bancario e contenere la spesa
pubblica in luogo di politiche espansive. Quelle politiche “anticicliche” e di
riduzione della domanda in una fase recessiva vennero criticate da molti
(citiamo per tutti Krugman e Stiglitz) ma non dagli alti vertici europei né dai
governi nazionali. La crisi greca del 2010 – che fu una crisi del debito
sovrano cui si accompagnò una crisi dell’euro – e la seguente “crisi dello
spread” in Italia nel 2011 portarono alla caduta del governo Berlusconi e al
governo Monti sostenuto dal PD, ma non ad una messa in discussione né
dell’impostazione europea nei confronti della crisi, né tantomeno delle sue
strategie di fondo. Dal 2013, poi, al PD, partito di maggioranza, venne
affidata la guida del governo con Letta, Renzi e poi Gentiloni per l’intera
legislatura, fino al 2018. Furono tutti governi di coalizione, è vero, ma a
marcata guida PD. Se si può dire che le politiche di “austerity” decise dalla
UE trovarono l’obbligato consenso del PD, è anche vero che furono prese decisioni
che non ne mettevano in discussione, alla radice, l’impostazione. Sono stati quelli
gli anni in cui l’Italia, unico paese UE, ha addirittura inserito nella sua
carta costituzionale l’obbligo del pareggio di bilancio e ha recepito il fiscal compact come un male necessario,
perché tra una richiesta di maggiore “flessibilità” e l’attesa della
fantomatica crescita – magari favorita da un mercato del lavoro più libero da
lacci e lacciuoli – sarebbe riuscita a risolvere i suoi problemi.
Eppure, il vizio di fondo
risale a molto tempo prima. È il vizio che accomuna tutta la sinistra europea.
C’è chi lo ha descritto come “un totale ripudio del passato e un’adesione
interiore al neoliberismo” (Fabrizio Barca): “Un’intera generazione di sinistra – la mia –
dopo il 1989 si è convinta che i suoi ideali di uguaglianza fossero una sorta
di romantico errore di gioventù”. Mentre l’Europa, dopo l’89, definisce il suo
orizzonte strategico con il piano Delors che porterà al trattato di Maastricht
(1992), la sinistra fa sua la prospettiva di un’Europa sociale fondata sulla crescita. Ma la crescita, di per sé,
non garantisce che la ricchezza venga distribuita equamente ed egualmente; il
mercato, di per sé, non porta a meccanismi automatici di riequilibrio; l’idea
che “al crescere del livello delle acque tutte le barche si metteranno a
navigare” non tiene conto di quelle che si incagliano o sono troppo piccole per
reggere ai marosi. L’attenzione e l’enfasi sono tutte per la crescita,
l’eguaglianza verrà da sé. Se guardiamo a quante volte le parole
“eguaglianze/disuguaglianze” compaiono nei trattati – dal Single European Act
(1986), al Trattato di Maastricht (1992), al Trattato di Lisbona (2007), alla
Strategia UE 2020 (2010) all’ultimo European Pillars of Social Rights (2017) –
vediamo che solo nel Trattato di Lisbona esse compaiono 2 volte, mentre negli
altri appaiono una volta solo o mai. L’articolo 3 del Trattato di Lisbona
recita: “L’Unione deve approntare un mercato interno. Questo favorirà uno
sviluppo sostenibile dell’Europa basato sulla crescita bilanciata, stabilità
dei prezzi, un’economia di mercato sociale altamente competitiva, che aspiri
alla piena occupazione e al progresso sociale…”. Tutto si basa sul mercato,
quindi. Nessuno accenno al fatto che tutto questo andrebbe fatto facendo in
modo che il processo sia equo ed egalitario. Lasciamo fare al mercato, alla
crescita, che se tutto va bene tutti ne beneficeranno.
Ma già Tony Atkinson nel
1995 e Amartya Sen nel 1996 ammonivano che da sole le cose non si aggiustano.
“Se il programma di unità europea oggi appare sempre più come un piano tecnico
per unificare le monete e un calendario di tagli di bilancio annuali cui
conformarsi rigidamente, è importante tenere a mente che dietro a
quell’esigenza di unità vi sono obiettivi più grandi che comportano l’impegno
sociale per il benessere e le libertà della popolazione” (Amartya Sen, ‘Social
Commitment and Democracy: The Demands of Equity and Financial Conservatism’, in
P. Barker (ed.), Living as Equals,
Oxford University Press, 1996). Perché libertà? Perché se non si può scegliere,
non si è liberi. Una società che non dà le stesse opportunità a tutti di poter
decidere della propria vita non è libera, ed è iniqua.
Se la barca dell’Euro ha
continuato a navigare più o meno indisturbata fino al 2008 – tra la bolla della
new economy, l’11 settembre e le guerre in Afghanistan e Iraq e altre
distrazioni, mentre l’economia virtuale cresceva – i nodi hanno cominciato a
venire al pettine subito dopo. E la crisi greca è diventata il nostro incubo:
“con un debito così alto, la spesa pubblica va tagliata”. Ma la spesa pubblica
in Italia è tanto alta quanto quella degli altri paesi membri! E se dobbiamo
tagliare, dove tagliare? Ma la spesa sociale, naturalmente! Come se fosse da lì
che si originava la spesa crescente… E in Europa non abbiamo saputo che
balbettare, incapaci di un’altra visione.
In tutti questi anni,
l’adesione a quel modello è stata totale. Si è puntato sulla crescita, e per un
paese che non cresce, e sono più di 20 anni che è fermo, è drammatico. Si è
pensato – liberisticamente – che se il mercato non avrebbe ricompensato ogni
fascia equamente, al massimo ci avrebbe pensato la politica fiscale. La
distribuzione del reddito di mercato, ovvero prima di tasse e
trasferimento, è peggiorata, ed ora è tra le più concentrate in Europa. La
politica redistributiva ha continuato a fare molto ma, anche in questo caso, le
pezze che ci ha messo non hanno tappato tutti i buchi. Tanto si è creduto nel
mercato e nella crescita, in Italia, che oggi siamo un paese più diseguale, che
spende meno degli altri in istruzione – meno opportunità per tutti –, dove
“l’ascensore sociale si è rotto” più che altrove, dove le condizioni sociali di
padri e madri si perpetuano nei figli, proprio come accadeva un tempo. Questo
non è accaduto per le inevitabili conseguenze della globalizzazione, perché lo
ha voluto l’Europa o perché l’Italia non poteva che fare la sua parte. Sono
state le conseguenze di scelte fatte nel tempo, nel solco di un pensiero che
non era della sinistra, che ha portato a quel modello di globalizzazione di cui
oggi subiamo le conseguenze.
E la sinistra, dov’era? Al
governo (most of the time), e anche
quando non c’era aveva la testa altrove.
E allora, gridano in
molti, la sinistra è inutile se non persegue l’uguaglianza.
