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Considerazioni impolitiche di un cittadino elettore

lunedì 11 Marzo 2013
[36° anniversario della uccisione di Francesco Lorusso a Bologna]

Un Paese confuso, sbandato, fermo sul ballatoio nel battibecco di un rumoroso pettegolezzo dove protesta, ingiustizie, conquiste, diritti, doveri, rispetto, legittimità sembrano annullarsi in un torbido rimescolamento di prospettiva. Un Paese dove è lecita l'ingiuria, la violenza verbale è segno di affermazione, in una triste reminiscenza di passati non dimenticati. Non era bastato portare canottiere e invettive da osteria in parlamento, ora anche le piazze che "mandano a quel paese" sono protagoniste. Dopo il miliardario puttaniere, perso per perso, il Paese ha pertanto deciso di affidarsi al marketing del "vai a farti...". Non sono un "politologo", solo un cittadino elettore, e guardo incredulo a questo querulo Paese incapace di trovare una strada, un discorso, come anche il bla-bla di queste settimane sembra mostrare (anche se i segni c'erano tutti, da mesi). Il corto-circuito del senso, questa sì è la perdita di senso della politica. Non crisi di consenso ma crisi di senso per la sinistra.

Sono uno dei 36 milioni di italiani che ha una connessione internet, ma non ho un account Facebook, non uso Twitter né partecipo a blog o meetup. Le statistiche dicono che poco più di un terzo e per lo più giovani di quegli utilizzatori di internet frequenta "social networks" e blogs. Anche se in queste statistiche l'Italia appare ben indietro rispetto ad altri paesi, è però vero che è in Italia che ha avuto grande successo nelle ultime elezioni un movimento che ha trovato il suo canale di diffusione principalmente sulla "rete", il Movimento Cinque Stelle. Noi non abbiamo indignados, ma le "cinque stelle" (non è un discount, ma roba seria). L'Italia è proprio un Paese strano: stanco della politica, sfiancato dalla crisi economica e sociale, succube della televisione ebete, ha trovato modo di dare voce ad una protesta nata e cresciuta sul passaparola dei blog e della rete, dietro ad una sola parola d'ordine: "mandiamoli a casa" (dicono che ce ne siano altre, che "in realtà le proposte dei grillini non sono così male", ma appena smette il balbettio non rimane che quel "mandiamoli a casa"). Non so se sia un segno della "fine dei partiti" o addirittura della politica, ma certo è un segno che quel Movimento ha raccolto un consenso che si è espresso massicciamente, senza giornali e televisioni a far da propaganda. Dunque qui sta la novità: consenso attorno ad una parola d'ordine circolata via web, rifiuto dei mezzi e dei modi "degli altri", la differenza dell'uomo qualunque contro il politico di professione, il rifiuto della Politica perché il politico è mestierante del compromesso e della corruzione. Ma le competenze legislative...?!? Quelle non contano (più).

Era luogo comune un tempo dire che gli Italiani amano "parlare di politica" e che sulla politica, come sulla nazionale di calcio, tutti si ritengono "esperti". Per molti della mia generazione oggi cinquantenne la politica era vissuta come impegno, come utile a cambiare, mantenendo sempre un'aura di rispetto, lo stesso che si riserva ai missionari anche quando non se ne condivide lo scopo. Voglio anche aggiungere una noterella. Ho sempre provato piacere a votare, non solo per quel senso cerimoniale dell'entrare nella cabina, marcare la scheda con quella speciale matita e poi infilarla nell'urna di cartone, ma perché mi ha sempre dato quella esigua emozione di poter far parte di un grande processo decisionale in cui anche il mio voto si sarebbe andato a sommare a quello di milioni di altri. Il giorno delle elezioni era come un piacere... (ah, Gaber!) Al di là di questo, comunque, ho sempre considerato "strana" l'idea di esprimere un voto di "protesta" nella forma di una scheda nulla o addirittura di un non voto e non tanto perché sono morti in tanti per poterci dare la possibilità di esprimerlo, quel benedetto voto, ma anche perché ho sempre ritenuto che conti molto di più contribuire che distruggere. Certo, nella storia a volte La Bastiglia bisogna assaltarla, e il Palazzo d'Inverno bisogna prenderlo, ma da un voto "che non vale" è difficile che venga fuori qualcosa anche solo lontanamente simile ad una rivoluzione. Certo, i "politici" sono sempre stati lontani, ma sin dai tempi dei nostri padri, a loro si è sempre guardato come si guarda alle autorità, anche quando erano da svillaneggiare – da Andreotti a Moro a Cossiga la lista è lunga. Eppure, è nel segno di questa "rivolta" che oggi la politica è tornata ad essere una "cosa sporca", proprio come ci veniva detto da giovani per non dare fastidio e per non far togliere il velo sulle ingiustizie, quando fare politica voleva dire protestare contro lo status quo (ce ne è sempre stato uno, quello era borghese e classista). Ma sarà davvero questo che dicono i segnali che vengono dal Movimento nato sulla rete, siamo di fronte ad una rivolta contro le ingiustizie non in nome della politica ma contro la politica? Non esiste una rivolta che non sia politica! Ma allora questa è una rivolta contro una certa politica, non più in nome della rivoluzione o degli ideali, ma di punti specifici e post-ideologici, se vogliamo, "trasversali". É stato detto e ripetuto: rivolta contro la casta, rivolta degli outsider contro la società degli insider, rivolta contro il modello economico sociale liberista (…). E' davvero questo?

L'Italia è un Paese che, come altri, ha maturato la sua propria forma di democrazia scontando tutte le sue tare storiche. Se la guerra di liberazione – che in molti vollero di liberazione non solo dai nazisti occupanti ma anche dai fascisti, quegli italiani che ci avevano portato nel baratro e persistevano con malvagia pervicacia a voler stare dalla parte di Hitler – fu la guerra dei nostri Alleati sul suolo italiano cui la nostra Resistenza contribuì a combattere il nemico aiutando allo stesso tempo gli italiani a riconquistare "in proprio" la libertà e il senso della democrazia, se già la Resistenza mise in luce differenze ideali e politiche che il divenire dei fatti sancirà con l'esclusione di comunisti, socialisti e parte degli azionisti dal governo già dopo tre anni, l'Italia che ne venne fuori fu un Paese condiviso, come lo furono il suo sistema istituzionale e politico. Ma, si sa, venivamo da un ventennio di dittatura, di penuria e stagnazione che era seguita ad un'industrializzazione parziale, c'era ancora la miseria, l'analfabetismo e la vita malsana in molte parti d'Italia. Il boom economico, la massiccia migrazione interna, la crescita economica trainata da piccole imprese ed esportazioni fecero giustizia di molte pene, favorite da aumenti dell'occupazione e del reddito e da politiche redistributive che, anche se perpetrarono arretratezza e ritardo dello sviluppo nel nome dell'assistenzialismo e del consenso nonché un sistema generoso di contributi e sussidi, seppero far gettare un velo sulle enormi storture che andavano producendosi sul corpo sociale, sulla cultura popolare e sull'ambiente.

La condizione operaia, anche dopo che quella contadina e bracciantile era passata in secondo piano, non è mai stata una condizione di vita gradevole, e non solo per le morti sul lavoro. Ancora negli anni settanta era una condizione di sfruttamento, anche se i salari erano già cresciuti molto sopra il livello di sussistenza (proprio come Gian Maria Volonté ne La classe operaia va in paradiso). C'erano disagio sociale, malcontento e malessere anche allora. Ma la classe operaia, in quanto tale, aveva a quel tempo trovato forme di espressione politica e di difesa dei propri interessi nei partiti politici (comunista in primis) e nei sindacati. Nessun serio imprenditore può negare quanto fossero importanti i sindacati – come rappresentanti dei lavoratori – nelle negoziazioni su salari, orari, organizzazione del lavoro, condizioni di lavoro. Certo, se per i "datori" di lavoro può essere più conveniente la trattativa individuale – mettendo in competizione tra loro i lavoratori – è vero che la negoziazione collettiva presenta enormi vantaggi strategici per l'azienda e detta condizioni uguali per tutti. Tuttavia, quello cui voglio arrivare è che i disagio sociale e il malessere esistevano anche allora. Lo sfruttamento del lavoro ha solo cambiato forme.

Le spinte sindacali, accanto alla forza politica espressa dai lavoratori (tutti, non solo gli operai) ha portato dagli anni cinquanta fino alla metà degli anni settanta, in Italia come in tutte le economie avanzate, ad un aumento dei livelli salariali e, su scala aggregata, un aumento della quota del reddito da lavoro sul reddito nazionale totale. Questo è stato possibile non solo perché aumentava il prodotto nazionale – e quindi la quota assoluta del salario poteva aumentare – ma anche grazie a politiche distributive e redistributive progressive. Anche le politiche fiscali contribuirono in questo senso. La crisi petrolifera, la ristrutturazione industriale, l'inflazione e l'esplosione del debito pubblico che seguirono, però, portarono il giocattolo a rompersi. La "controffensiva monetarista", come la chiamarono gli economisti – che portò a dare tutte le colpe dell'aumento della spesa pubblica e del rallentamento dell'economia alle politiche keynesiane – accanto alla revanche degli industriali e del ceto piccolo imprenditoriale, aziendale e professionistico che ebbe il suo acme nelle politiche di Mr Reagan e Mrs Thatcher (condito da profuse dosi di anticomunismo viscerale, dalle guerre stellari antisovietiche allo schiacciamento dei minatori in Inghilterra), portarono all'inizio di un nuovo ciclo, che poi non fu che la ripresa di un ciclo molto antico, che dalla Grande Depressione in poi si era interrotto, quello del laissez faire del libero mercato, de-regolato, de-statalizzato, liberalizzato, continuazione del capitalismo feroce delle origini, quello allo stato brado, che aveva portato i Carnegie, i Vanderbilt, i Rockefeller e i Ford a divenire i padroni del mondo.

Quanto avessero di keynesiano le politiche degli anni sessanta e quanto fossero state responsabili dell'aumento del debito pubblico negli anni ottanta è però da dimostrare – galeotta fu l'inflazione, lo sappiamo, ma l'occasione fu buona per dare un colpo all'intervento statale dando, allo stesso tempo, legittimità alla rivincita dei profitti in nome della "difesa dell'occupazione". Tutto "fece brodo" per vincere la guerra fredda. Il crollo del muro e del sistema sovietico, l'apertura delle frontiere, effettiva e virtuale grazie allo sviluppo delle telecomunicazioni e di internet, diedero la stura definitiva al nuovo impeto capitalistico: non era più la prateria il terreno di conquista ma il mondo intero, da Novosibirsk a Bangalore, da Shangai a Tijuana, non erano più gli "indiani" quelli da sradicare, eliminandoli, ma al più i sindacati. Su larga scala si è riprodotto lo stesso meccanismo dell'età dell'oro capitalistica: profitti enormi, salari al minimo, con delocalizzazione e disarticolazione territoriale come arme vincenti per la determinazione del salario e della domanda di lavoro. L'economia italiana, come altre, si è adattata, sopravvivendo. Certo, è vero, sono vent'anni che non cresce, si è parecchio "ristrutturata", ha perso operai, artigiani, lavoratori a bassa qualifica italiani sostituendoli con lavoratori immigrati – quando non ha portato fuori capitali e processi ha fatto venire dentro lavoratori –. E nei suoi segmenti a maggior valore aggiunto ha puntato su design, fama, mercato, con risultati alterni (e quante eccellenze perdute...).


È l'economia

Il fatto è che dopo anni di jobless growth è poi cominciata la fase della jobless stagnation. L'offerta di lavoro ha continuato a crescere senza incontrare la sua domanda, generando così disoccupazione crescente, mai così alta in Italia e in Europa come negli ultimi tempi. A gennaio, secondo i dati diffusi da Istat, la percentuale dei senza lavoro è salita all'11,7%. Un anno fa, il tasso di disoccupazione era al 9,6%. Una disoccupazione che era scesa attorno al 4% nei primi anni '60 e che era salita fino a più del 15% dopo il '95, si era lentamente abbassata fino all'8% nei primi anni del nuovo secolo: oggi coinvolge 3 milioni di persone, con un tasso del 38.7% tra i giovani (15-24 anni). Il reddito nazionale ha smesso di aumentare, l'occupazione cala, la disoccupazione aumenta.

Secondo gli ultimi dati disponibili del nostro Istituto di Statistica, "più di una famiglia su dieci vive in condizioni di povertà relativa e una su venti in condizioni di povertà assoluta": si tratta di 8,2 milioni di individui, che vivono in maggioranza al sud e nelle isole. I dati sulla povertà sono confermati da quelli sul reddito: sempre secondo l'Istat, nel 2010, la metà delle famiglie italiane ha percepito meno di 24.444 euro (2.037 euro mensili lordi). In tema di disuguaglianza, secondo quanto riferisce l'OCSE nel suo ultimo rapporto sulla distribuzione del reddito percepito, l'indice di Gini per l'Italia nel 2010, pari a 0,46, era secondo solo a quello degli Stati Uniti, vicino allo 0,53, e simile a quello del Portogallo. Questi sono numeri da paesi in via di sviluppo. Fortunatamente, il reddito disponibile (cioè al netto di tasse e sussidi) presenta un quadro migliore, con un indice attorno a 0,33 e l'Italia dietro a Cile, Israele, Stati Uniti, Portogallo e Regno Unito, tra i paesi OCSE. In ogni caso, la disuguaglianza dei redditi in Italia è notevolmente superiore alla media dei Paesi OCSE. Come aggiunge il rapporto OCSE, "La disuguaglianza dei redditi tra le persone in età lavorativa è aumentata drasticamente nei primi anni Novanta e da allora è rimasta a un livello elevato, nonostante un leggero calo verso la fine del primo decennio degli anni duemila. Nel 2008, il reddito medio del 10% più ricco degli italiani era di 49.300 euro, dieci volte superiore al reddito medio del 10% più povero (4.877 euro) indicando un aumento della disuguaglianza rispetto al rapporto di 8 a 1 di metà degli anni Ottanta." Non solo, ma in Italia esiste una notevole disparità tra Nord e Sud in termini di reddito e la diseguaglianza nella sua distribuzione è più pronunciata al sud, il che significa che chi ha un reddito basso e vive al sud ce l'ha molto più basso di chi è ricco ma anche di chi ha un reddito basso al nord. Le cose non cambiano se consideriamo la ricchezza. "Il reddito non basta per due famiglie su tre", La Repubblica titolava l'altro giorno, "Bankitalia: in vent'anni povertà triplicata tra i giovani e raddoppiata tra gli affittuari". Non è dunque solo la "crisi" che ha portato a questo, ma il risultato di un processo cominciato già da tempo e che è venuto consolidandosi nel corso dell'ultimo ventennio.

Sul versante dell'istruzione le cose non sono meno allarmanti. L'Istat ci dice che "In Italia l’incidenza della spesa in istruzione e formazione sul PIL nel 2010 è pari al 4,5%, valore inferiore a quello della media UE a 27 (5,5%).Nel 2011 il 44% circa della popolazione in età compresa tra i 25 e i 64 anni ha come più elevato "titolo di studio conseguito" la licenza di scuola media inferiore come titolo di studio più; tale valore risulta molto maggiore della media UE a 27, pari al 26,6%. La quota dei più giovani (18-24 anni) che ha abbandonato gli studi prima di conseguire il titolo di scuola media superiore è pari al 18,2% contro il 13,5% dei paesi UE.1 Infine, "il 20,3% dei 30-34enni ha conseguito un titolo di studio universitario (o equivalente). Nonostante l’incremento che si osserva nel periodo 2004-2011 (+4,7 punti percentuali), la quota è ancora molto contenuta rispetto all’obiettivo del 40,0 per cento fissato da “Europa 2020”."

La crisi dunque ha colpito le classi popolari e subalterne, la parte bassa della distribuzione, non quella alta che, anzi, in fondo non sta poi così male. Studi mostrano che il reddito dell'1% più ricco della popolazione è aumentato un po' ovunque in questi anni. Il mercato dei beni di lusso non conosce crisi e se c'è un settore che in questi ultimi tempi non ha sofferto troppo in Italia è quello dell'alta moda e del design di lusso. Insomma, siamo un Paese che arranca, che non investe nell'istruire i suoi giovani, che sono disoccupati e sempre più poveri. Certo non siamo soli, non siamo gli unici, i paesi del sud Europa non se la passano bene, lo sappiamo, ma non perché pagano anni di generosa spesa pubblica. Anche questa storia non è poi così vera: la spesa pubblica per istruzione, abbiamo visto, è più bassa da noi che altrove in Europa. Lo stesso si può dire per la spesa sanitaria (sono dati UE e OCSE). La spesa pensionistica, nel Paese che ha l'età media più alta di tutta la UE, è certo alta, ma non così più alta. La spesa sociale nel suo complesso non è più alta in Italia che non in Europa o negli Stati Uniti. Anche nella vituperata Germania, comunque, le cose non vanno così bene. La povertà urbana è molto aumentata negli ultimi anni, tra anziani e pensionati le condizioni di vita si sono fatte notevolmente peggiori, e la diseguaglianza nella distribuzione del reddito – pur rimanendo minore di quella italiana – è costantemente peggiorata nell'ultimo ventennio.


Oppure è la politica

Questi numeri mostrano una situazione grigia e che è andata deteriorandosi, in Italia più che altrove. La discussione politica si è tenuta lontana, incapace di cogliere i problemi, succube del "pensiero unico" ("è l'Europa a chiedercelo!" "È l'economia, non si può fare altrimenti", "i mercati vogliono stabilità", etc.). Senza fare considerazioni politiche, possiamo però constatare quali politiche sono state partorite dalla politica.

Quante bandiere avrebbero avuto da fare proprie e sventolare, in questi decenni, i partiti, con i loro apparati e macchine propagandistiche, e i loro leader, che la politica la fanno. Pierluigi Bersani, Nichi Vendola, Antonio Ingroia, ma anche il gruppo de il manifesto, quelli di ALBA e poi di Cambiare si può, Matteo Renzi, D'Alema, Veltroni, e tutti quelli del centro sinistra e della sinistra di questi anni. Ci siamo ritrovati il 26 febbraio in un Paese diviso, frantumato, confuso, un Paese che sembra avere perso la testa. Chiamato a votare, ha espresso di testa, di pancia, di cuore, tutto il grumo di problemi che tutti a sinistra non han saputo vedere. Quei leader, che verrebbe da dire sono parte del problema, loro come il Paese giù per questo crinale per il quale il Paese ha preso a rotolare. La realtà da cui si sono allontanati ora è venuta a stanarli e bussa minacciosa per loro (e per noi tutti). A ben vedere, il Paese non ha perso la testa. Abbiamo letto i commenti attoniti, però prevedibili, e avremmo già voluto rivolgerci a loro, noi che non abbiamo voce e come tutti ha come voce il solo voto, per esprimere il nostro sgomento. Perché non hanno saputo vedere e io, come molti altri, non abbiamo potuto fare altro che votare per loro affinché non accadesse il peggio e comunque non è bastato. C'è solo da leggere stupiti il tono dei loro commenti e dei loro commentatori, come patetico è leggere l'acredine di certi commenti de il manifesto a quanto non avrebbe fatto il PD per quanto di poco avrebbe fatto Ingroia... Non è solo che un Paese ha "i governanti che si merita" (perché li esprime): è il vuoto di prospettiva che si è così manifestamente palesato.

Il PD ha inseguito con politicismi e tatticismi le chimere della "governabilità", perché "lo diceva l'Europa" e i mercati dettavano legge. Pensavano, al PD, che tallonare i bocconiani che riscuotono i favori dell'elite tecnocratica delle organizzazioni internazionali e dei circoli finanziari, avrebbe conquistato loro le simpatie del ceto medio, borghese e impiegatizio, coltivando al tempo stesso l'affetto per quello operaio e tecnico difendendone le sicurezze. Non hanno saputo guardare avanti e al resto del mondo, al PD, perché non c'è un solo modo di rispondere alla crisi capitalistica, ci sono anche soluzioni progressiste agli effetti della globalizzazione. Non c'è solo l'Economist. Sono rimasti fuori dalla discussione aperta, dal dibattito che attraversa persino il pensiero unico neo-liberista, risultando alla fine vuoti di proposta e prestando il fianco all'accusa di "conservatori" dei bocconiani. Quanto è stata stolta e rivelatrice quella battuta: "il partito nato nel '21". Almeno una memoria storica ce l'avessero, quelli.

Il PD ha lasciato che il professor Monti e i suoi dominassero la scena mentre il miliardario ridens tornava alla carica, incurante di tutto e chiamava alla raccolta i suoi. Non solo i suoi politicanti, ma tutta quella vasta popolazione che qualcosa in cambio ha avuto e l'avrà e che non sono pochi: tra i piccoli valligiani e i grandi evasori fiscali, i piccoli imprenditori i cui figli maneggiano skei (danei) fin da piccoli e sono più bravi a quello che con i Lego, quell'Italia che è sempre stata lì, che tra un condono fiscale e un condono edilizio si è fatta la sua posizione, quell'Italia che è conservatrice di questo esistente, non di un altro, magari cattolica, magari bigotta, che negli anni ha votato dai Borghezio ai Gentilini ai Miglio, dai Formigoni ai Formentini, dalle Moratti ai Tremonti (quale lista di nomi tremebondi si potrebbe fare... eppure, come disse un grande Altan, un giorno tutto questo saranno i nostri ricordi di gioventù), tutti dietro al miliardario con le sue televisioni, case editrici, giornali, pubblicità e proprietà immobiliari. Cosa ha fatto, il PD, per scalfire quel blocco, mandando in avanscoperta i Pisapia (che ce l'ha fatta!) e poi gli Ambrosoli (che non ce la poteva fare) che con quell'Italia non hanno nulla da spartire e a quell'Italia non hanno potuto contrapporre l'altra. Perché c'è un'altra Italia: quella che ha sempre lavorato, tirandosi su le maniche, quella che ha sfangato si da quando era contadina e bracciante e poi operaia, che si è fatta la fabbrichetta, l'aziendina artigiananale, quell'Italia produttiva, etica, quella dell'altro Stato, che le elite politiche e intellettuali hanno sempre guidato e indirizzato ma che ha sempre espresso il meglio, dai giovani che combatterono nella Resistenza al ceto intellettuale, amministrativo e anche politico che è venuto su dal basso e ha espresso il corpo sano della nazione per tutto il dopoguerra. Ma quell'Italia espresse una classe dirigente che, lentamente, nei decenni ha finito per farsi travolgere, lasciando il campo ai parvenu della politica e del governo.

Il PD e la sinistra tutta hanno perso di vista quell'Italia sana, non hanno saputo indirizzarla, convincerla, persino proteggerla, hanno subito tutto: dalla caduta del muro di Berlino hanno subito la storia colpo dopo colpo senza mai reagire (e quando hanno reagito lo hanno fatto "gettando il bambino con l'acqua sporca": come se gettare alle ortiche il nome comunista fosse la prima cosa da fare, hanno gettato anche tutto il patrimonio ideale e di fatto che lo aveva nobilitato, scordandosi perfino di difendere la Resistenza, come se fosse stata una colpa, lasciando il solo Bocca, non comunista, a difenderla). Ma non era forse compito storico della sinistra difendere le masse, come venivano chiamate, la classe operaia, i ceti popolari dalle shock therapies che venivano suggerite dopo la caduta del muro? E non era forse compito storico della sinistra stare dalla parte degli immigrati, degli emarginati, quando cominciò l'onda che investì l'Europa? E non era forse compito della sinistra stare dalla parte del lavoro precario, dei giovani senza contratto, dei lavoratori tutti contro la disarticolazione territoriale del capitale provocata dalla globalizzazione? Parole e termini in disuso, eppure queste erano e sono ancora le parole che si dovrebbero usare.

No, la sinistra si è ridotta sempre più, restringendosi come una coperta di lana infeltrita a difesa dei suoi vecchi miti, alla fine finendo per non difendere nemmeno più i lavoratori "occupati a tempo indeterminato". Le nostre città sono divenute di nuovo aree di marginalità e non è più la sinistra a rappresentarle. Così, siamo arrivati ad oggi, a quest'Italia sventrata nel paesaggio, nell'ambiente, nelle istituzioni, nelle università e nella scuola, nelle grandi imprese. Dove erano quelli della sinistra quando a poco a poco veniva compiuto lo scempio, lo smantellamento? Quelli di loro "più a sinistra", per così dire, litigavano tra loro, e non si sa bene per cosa. E Ingrao contro Amendola, e Magri e Rossanda contro Ingrao, e i miglioristi e i movimentisti e poi... il manifesto contro Valentino Parlato! Sono rimasti a litigare tra loro anche ora, sono sempre di meno e continuano a litigare. Altri hanno voluto fare "i moderni", dimenticandosi che una delle discriminanti tra destra e sinistra passa ancora e passerà sempre tra eguaglianza e elitarismo (la cui voce aggiornata si chiama sempre più meritocrazia), tra difesa dei diritti e dei beni comuni e individualismo e privatismo.

E così ci siamo ritrovati con un Paese dove un quarto dei suoi cittadini non ha votato, un terzo ha preferito votare per uno che "manda tutti a cagare", un terzo per la difesa del suo status sociale anti-europeo perché gretto, conservatore che non ha voluto saperne delle sirene moderate della sinistra, e quel piccolo terzo che ancora ci ha creduto. Non è tanto la colpa di non avere saputo stanare quei nove o dieci che hanno votato per il professore, né quegli operai e valligiani che hanno comunque votato per Maroni anche se sta con il Berlusca, "che tanto se rubava Bossi lo facevano anche gli altri, l'importante è non pagare le tasse e non dare i danei a quei teroni del sud", e neppure la colpa di non aver saputo prevenire il comico arringa-popolo. È sconvolgente pensare che ci sia un Movimento in mano ad un'agenzia pubblicitaria: forse una dimostrazione che il popolo è caprone quanto mai e che basta "influenzarlo"? Il comico arringa-popolo, sin da quando voleva abolire la moneta, quando faceva "satira politica", non è un pazzo. Ma dà fastidio che questo signore di 65 anni, con malizia e furbizia, si appropri di tutti i movimenti e i malcontenti ci sono in giro.

Il fatto però è che c'era lì un'Italia che covava il malcontento, stanca, sfibrata, che il comico ha saputo arringare. C'è un'Italia del malessere che non ne vuole più sapere delle parole logore di quella sinistra. Di questo la sinistra porta la colpa, di non avere saputo cambiare politica (se stessa), radicalmente, e sentire quel malcontento, capirlo, indirizzarlo. Farsi scalzare da un comico autoritario, questa la colpa, per mancanza di argomenti, incapacità a capire, lontananza dalla realtà. Ma come può essere, si sta chiedendo ora, votare solo per esprimere rabbia, dissenso, malcontento, e non vedere che dietro non c'è proposta e forse peggio c'è malizia? Altro che "ora sarà di moda l'onestà" (verbatim, il comico), sarà solo di moda l'aizza-popolo contro il malumore di turno. Eppure è successo, e non si tratta di "demonizzare". Non una, se escludiamo Dario Fo e Adriano Celentano, tra le persone di cultura in Italia aveva pubblicamente espresso i suoi favori per quel Movimento (prima: ora vengono fuori piano piano, qualcuno lo deve aver pur votato). Non uno di quei nomi che ho scorso sulla lista dei candidati, quel giorno nel seggio, non uno era più anziano di me, non uno era a me noto, non uno di quei nomi (come sappiamo) scelto per competenze e professionalità, per fervore ideale o rappresentatività. Bello! "Finalmente votare persone qualunque, giovani, che capiscono i problemi della gente qualunque". Ma io vorrei che a governarmi fossero persone competenti, che io rispetto, giovani o anziane che siano, che eleggo perché da loro mi sento rappresentato... Eppure è successo, eppure un terzo degli Italiani che è andato a votare ha ritenuto che quello fosse meglio che tutto il resto. Cosa concludere? Che devono proprio essere stufi.

Ora se ne dovrebbero andare davvero, è triste dirlo, ma doveroso, e lasciare il posto a qualcuno che riprenda il mano la bandiera, prima che sia troppo tardi. Il quarto stato, non i contadini e gli operai, ma i giovani dei call center, i tecnici delle partite IVA, le centinaia di donne sottopagate, quel ceto impiegatizio di cui non vi siete mai saputi occupare, gli esodati, gli over-50, quello è ormai alle porte, il comico lo arringherà davvero come se fosse una rivoluzione, nel nome del "mandiamoli tutti a casa". Se un'Italia ha preferito votare in modo distruttivo una assenza di proposta vuol dire che il malcontento è tanto e la confusione è molta sotto il cielo. Non abbiamo un grande timoniere, almeno lasciamo spazi ai piccoli timonieri di quella flotta sparsa che ancora può svegliare il Paese sano. Si fa un gran discutere sui voti andati al comico incantatore, interpretazioni e distinguo. Ma è già chiaro che è una tendenza che viene da lontano, è già chiaro che quel voto esprime un malcontento, un malessere che sono profondi e vengono da corpi sociali che hanno ormai da tempo perso identità di classe, culture, pratiche che non usano più il linguaggio e i modi e certo non hanno più i riferimenti del passato (non stupiamoci che non sappiano chi erano gli Arditi, o che "Mussolini agli inizi non era così male.."). Ma nelle crisi, a pagare sono sempre i ceti subalterni, e questo è di sinistra. Quei gruppi sociali, che siano neo-laureati o diplomati senza lavoro da 10 anni, precari, pensionati, cinquantenni esodati o disoccupati non guardano certo più da tempo alla sinistra, a quella sinistra. Ma ciononostante ci saranno i duri di comprendonio, a sinistra, quelli che non vorranno capire che se non è (anche) a quelle masse che guarda la sinistra, per quanto si voglia dire moderna, non sarà più sinistra. Girava la leggenda nelle settimane scorse che "tanto era a Berlusconi che Grillo portava via i voti" e che invece era a Monti che la sinistra doveva fare concorrenza... ma di quale sinistra stiamo ormai parlando? Tutti erano "convinti" che Bersani facesse l'en plein o ci andasse vicino. La realtà era però un fiume carsico che stava già montando in un'altra direzione. Chi aveva votato a sinistra aveva già deciso di darlo a Grillo, unendosi ai non-rappresentati di tutte le origini, e non sono stati pochi...

Questa potrebbe essere l'occasione per fare tante cose buone, l'occasione sì di mandare un po' di gente a casa (non "a cagare", ma perché questa truculenza?) ma il problema è a tutti i livelli. In Italia non c'è "competition", concorrenza, trasparenza. In ogni ambito si va avanti per circoli chiusi e se non sei cooptato non vai avanti. Anche il modo in cui il Grillo ha reclutato il suo esercito di candidati da mandare al palazzo ripropone queste logiche. Non lasciamo che si affermi la violenza verbale, già bastava il Bossi con i suoi rozzi anatemi, questa violenza velenosa. Torniamo alla realtà, quella dalla quale si è allontanata la sinistra, i leader di ieri tornino a casa e noi ricominciamo. C'è tanto di buon ancor da raccogliere.

1 I dati più recenti sul livello delle competenze (indagine PISA dell’OCSE), mettono in luce una situazione critica per gli studenti italiani in tutte le literacy considerate e collocano il nostro Paese agli ultimi posti nella graduatoria dei paesi UE."