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Il vecchio guardiano del vecchio faro
che fioca la luce illumina

2 Febbraio 2013 - pubblicato su Gente di Gaggio, n. 46
[un tempo Festa della Candelora]

Cammino nell'oscurità sulla sabbia fine, è notte, la larga spiaggia è bagnata dalla luna. La luce argentea segna il mio passo, tra bottiglie di plastica e resti informi, rigurgiti di questa umanità rumorosa e indifferente. La spiaggia è vuota, inanimata, ma di là dalla riva lungo la strada brulica la vita di odori familiari, grida domestiche, risa giovani, fumi unti e luci dissennate. Come il giorno infuocato dal sole si stempera nella polvere opaca avvolgendo l'enorme fetore che sale dai fondi in una nuvola malsana, la notte ricopre del suo velo umido terre, rigagnoli, lamiere e tetti, vegetazioni e animali e uomini e donne stremati dalla penuria, lasciando brillare come una gettata di bianca ghiaia l'arco stellato dell'universo. Sembra avvicinarsi, tanto riverbera, tanto pulito appare dal velo strappato che si è depositato a terra quel cielo di stelle dell'equatore.

Cammino anche io, come il poeta, seguendo anch'io l'ancella della luna sul panno umido della spiaggia, come le spiagge di tutto il mondo, fermo davanti all'oceano, a contemplare il mare infinito, l'incessante rumore delle onde e il perché universale. Ogni luogo del mondo come di fronte a questo mare, ogni luogo del mondo luogo di amore e violenza, perché. Seguo l'ombra della luna sulla spiaggia fino al capo, dove alberi e rocce stagliano un profilo sull'orizzonte. Cammino, allontanandomi dalle voci, ascoltando il rumore dei miei passi che si fa via via più distinto. Mentre il brulichio della vita sbiadisce assieme alle luci fioche dei fuochi e delle braci con i panieri vivi, mi avvicino agli scogli del capo, dove intravedo altra vita. Ci sono sempre vite dietro ad ogni roccia, ad ogni angolo di terra, sotto ad ogni albero. Tra le baracche e le lamiere vedo le braci, le lanterne farsi più accese mentre mi avvicino. Quando arrivo nei pressi del capo, già vedo sul fondo il profilo netto – come fosse disegnato con la china sul cielo argenteo – di un vecchio faro dalla forma rotonda. C'è, forse, una luce fioca che da esso promana, o forse è la mia immaginazione mentre lo fisso cercando di distinguerne più nettamente le fattezze. Vocii accompagnano il mio cammino finché un ragazzo sbuca dalla notte, si vedono solo i bulbi bianchi dei suoi occhi neri e i denti appena, quando sorride, e mi dice che il faro è chiuso, che là non si può andare. Mi accompagna tra le baracche dove la sua famiglia veglia attorno ad un braciere, con una radio che stridula in sottofondo e i bambini che si inseguono scalzi, giocosi. Mi salutano tutti, rispondo con deferenza, per tornare poi verso la strada e reimmergermi nel brulichio rumoroso della civiltà.

Il giorno dopo, al pomeriggio, decido di esplorare la zona. Mi avvicino che c'è ancora luce, il sole è ancora alto all'orizzonte. Il vecchio faro, arrivandoci dal centro dell'entroterra, appare dietro ad alcune abitazioni di recente costruzione, tra case abbandonate, baracche, cespugli e rovi tra stretti vicoli polverosi. Il vecchio faro bianco emerge solo alla fine, come fosse ormai stato inghiottito non solo dal tempo ma anche dal paesaggio intorno. Tra le baracche che circondano l'antico presidio marino emerge un uomo magro, con una maglia sgualcita, che mi saluta solerte. Gli chiedo se al faro si può accedere e se vi è qualcuno di guardia. Mi indica l'entrata di un'area che un tempo doveva essere recintata, con il filo spinato, e che ora è solo ricoperta di rovi, tra i quali un sentiero si apre per condurre alla zona centrale. Mi dice che là si trova il guardiano. Mi incammino, e già arrampicandomi per quelle rocce il faro mi appare più grande, e il vento si fa improvvisamente sentire. E' bianco, decrepito, forse verniciato molti decenni addietro. Mi avvicino all'avamposto dove dovrebbe trovarsi il guardiano, chiamo come se non ci fosse nessuno e un piccolo uomo emerge sorridente. E' anziano, i radi capelli bianchi, ma ha l'aria di chi non è mai invecchiato, un cappello di traverso, un sorriso sdentato, una camicia d'ordinanza pulita addosso. Gli chiedo se è possibile visitare il faro e mi risponde che senz'altro è possibile, ma egli si scusa dicendo che non è in servizio e quindi non porta l'uniforme ma che se voglio mi può accompagnare lo stesso.

Così, mi apre la porta ferruginosa, e mi porta su per la lunga scala a chiocciola che per quattro rampe si avvolge lungo l'asse centrale fino in cima, dove a malapena si riesce a passare nel varco tra l'antica lampara e la rotonda cupola di vetro esterna che lo avvolge. Mi racconta che il faro fu costruito dai Portoghesi nel 1812, che sono appena passati duecento anni e nessuno lo ha festeggiato, il suo vecchio faro. Gli chiedo da quanto tempo si trova qui. Mi dice che lui prese servizio che c'erano ancora gli Inglesi, era il 1961, era un giovane di leva, e da allora ha sempre fatto la guardia al vecchio faro. Gli dico che deve avere i suoi anni, ma mi sembra che si mantenga in buona forma, anche meglio del suo vecchio faro. Mi guarda e poi guarda il mare, e la vecchia lampara. C'era un vecchio sistema a gas, con quelle grandi bombole che mi ha mostrato salendo, e quello funzionava. Si trattava di tenerlo acceso, e se il vento lo spegneva di riaccenderlo. Quando qualche tempo fa, ormai diversi anni, decisero di sostituirlo con un faro elettrico, sono cominciati i problemi, perché l'elettricità non c'è quasi mai con continuità. Mi dice che già tante volte ha fatto richiesta all'Autorità del Porto, che gli hanno sempre promesso che avrebbero installato un generatore, perfino due settimane fa, ma non è mai accaduto. Così, il faro va a batteria, con delle batterie d'auto che ora l'uomo si procura pazientemente e che pazientemente sostituisce, a spese proprie. Ed è per questo che la luce del vecchio faro appare, anche se sempre più fioca, a volte. Sono cinquantanni che lei è qua, gli dico. Mi guarda orgoglioso, sorride. Ma non va mai a casa, non fa il turno, gli chiedo. E' l'unico rimasto in servizio, da quando l'Autorità del Porto ha deciso che il faro non era poi così necessario e che forse un giorno lo trasformeranno in monumento. Ma intanto, mi dice l'uomo, bisogna pur farlo funzionare, fino a che non si decidono a chiuderlo davvero.

A quel punto, mi indica una scaletta e mi porta nella sua nicchia più preziosa, sotto al faro, sugli scogli dove le correnti si incontrano: è la stanza della radio. Entriamo dentro l'avamposto battuto dal vento, un piccolo tavolo su cui poggia una vecchia radio, una sedia, e il mare infinito tutto intorno, Mi mostra le onde che s'infrangono l'una sull'altra, dove le correnti della baia si scontrano con quelle dell'oceano e i gabbiani si abbassano sull'acqua schiumosa per afferrare la preda pescosa. La vecchia radio ci mette un po' ad accendersi, ma è una viva luce gialla quella che emette, assieme a quel suono familiare delle onde radio di tutto il mondo. Mi mostra il quaderno dei contatti, l'ultimo risale a pochi mesi prima, in cima alla pagina ce n'è uno di un paio di anni fa. Sono non più di una decina i contatti che riceve in un anno. Ma erano molti di più, un tempo, e mi mostra le pagine piene di nomi e codici. Calliope MTR22-15-68H è passata di qui quindici volte nel 1977, e poi ventidue volte nel 1989, una volta nel 1998 e poi più. C'è Persephones, c'è Achilles, c'è Nautilus. Tutti quei nomi arcaici, mitologici, come fosse il mondo di Jules Verne, ma forse sono quegli armatori, quei marinai, quei capitani di mare a vivere in quel mondo. Mi dice che lui accende sempre la radio perché se il faro non funziona o la visibilità è scarsa deve poter dare un segnale alle navi che passano, purché rispondano. Da qualche tempo non gli risponde più nessuno, mi dice.

Gli chiedo dov'è la sua famiglia. Il signor Seliù, così si chiama, non ha più famiglia, mi dice, Lui abitava dall'altra parte della città, a est, e tornava sempre a casa dopo il suo turno di servizio – dodici ore lui, dodici ore il suo collega – a volte di giorno, a volte di notte. Quando arrivarono i ribelli dalla foresta, era il 6 gennaio 1999, quel giorno all'improvviso entrarono e devastarono interi quartieri nella parte orientale della città. La polizia, i soldati, non fecero in tempo a reagire, anche perché i ribelli usarono la tattica degli ostaggi scudo: entravano nelle case, prelevavano donne e bambini, devastando e razziando e marciavano mandando avanti gli ostaggi, cosicché l'esercito non poté intervenire. In poche ore, occuparono interi quartieri. E si macchiarono di atrocità terribili. Quella fu la guerra sporca e atroce dei bambini-soldato di Foday Sankoh, Sam 'Mosquito' Bockarie e Charles Taylor, il dittatore liberiano che muoveva i suoi fantocci salonesi con i "diamanti di sangue", che non furono solo un soggetto cinematografico per Hollywood. Il signor Seliù mi chiede di accompagnarlo. Non mi porta nella baracca a fianco del faro, dove l'ho trovato al mio arrivo. Usciamo dalla zona "recintata" e seguiamo la strada sterrata verso le casupole di fango e mattoni che ormai la luce dorata del sole al tramonto rende ancora più calde. Entriamo in una porticina bassa in un ambiente dove c'è un grande giardino, sotto un grande albero del cotone, uno di quei grandi alberi con la corteccia che sembra pelle d'elefante che quelli di qua chiamano così. Il signor Seliù mi mostra il suo piccolo orto dove coltiva un po' di tutto, ha anche una capretta e un maialino nero, non gli manca nulla, si può dire. È solo, ma intorno ci vive tanta gente.

Mi racconta che lui è sopravvissuto solo perché era in servizio al faro. Sua moglie, povera donna, non c'è più, la pena se l'è portata. Avevano sei figli, due o tre erano già grandi, il più piccolo avrà avuto qualche mese. Sua moglie gli raccontò che arrivò un ragazzo, avrà avuto non più di dieci anni, che con il mitra puntato aveva intimato al suo figlio più grande di violentare sua madre, lì, davanti a tutti. Il bambino soldato rideva invasato, e agitava il mitra davanti a sé. Suo figlio, fermo, senza reagire, si era rifiutato di obbedire e quello gli aveva sparato sul volto, uccidendolo così, sul colpo, e lasciandosi andare in una risata sguaiata. A quel punto era entrato un altro, un po' più grande, che gli aveva chiesto cos'era successo, facendo poi la stessa domanda a sua moglie. Mentre il bambino assassino aveva continuato a ridere come fosse drogato, la donna si era come impietrita, terrorizzata. Se avessero saputo che io lavoravo per il governo, dice il signor Seliù, li avrebbero ammazzati tutti. Il soldato più grande, allora, anche lui con gli occhi rossi come un ossesso, aveva preso il bambino piccolo per un piede e con il machete gli aveva tagliato di netto l'altro piede. I due se n'erano poi andati portando con sé gli altri figli e lasciando la povera donna là, con il bambino monco e piangente, sola. La guerra dei ribelli a Freetown e in tutta la Sierra Leone lasciò migliaia di vittime amputate, a volte di entrambe le mani e i piedi, una ferocia inusitata praticata per lo più da giovanissimi armati di machete e di mitra, a cui erano state praticate le stesse violenze sui genitori o fratelli. Quando quella sera il signor Seliù aveva finito il suo servizio aveva trovato sua moglie invecchiata con il corpicino del bambino appena morto in braccio, dissanguato e senza il piccolo piede.

Il signor Seliù guarda il mare oltre il suo piccolo orto e sospira. Lei non ha retto il dolore, l'orrore, mi dice. Ma Allah è grande e misericordioso, aggiunge con i suoi neri occhi umidi. Il faro è la sua casa, la sua famiglia che ora accudisce e che forse il governo ha già chiuso ma per il signor Seliù è sempre in funzione e finché ci sarà lui ci sarà sempre una batteria per fare luce e una radio accesa pronta a portare assistenza ai naviganti in difficoltà.

Freetown, Sierra Leone