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In Sierra Leone

31 Marzo 2013
[in questo giorno, nel 1822, gli Ottomani massacrarono la popolazione greca di Chios ribellatasi al dominio turco]

In Africa tutto è diverso, non è come a casa. L'aria, l'odore, la pressione atmosferica, caldo e umidità, tutto si sente diverso, anche le puzze, i rumori, i fastidi. Diverso, ma non per questo meno familiare, conosciuto, non qualcosa di straniero come si fa sentire l'Asia, almeno quella che dove sono stato, che mi è sempre stata lontana, misteriosa, un altro mondo. La diversità familiare dell'Africa è una sensazione, certo, che però si rinnova ad ogni viaggio, breve o lungo che sia, e si ripete ovunque io arrivi, resti e riparta dopo giorni o settimane uguali a se stessi. C'è un essere Africa – come però, a pensarci, c'è un essere Europa dell'Europa continentale e nordica – che è quello, come lo sono gli odori e le effusioni, girando il continente da est a ovest e da nord a sud, non varia: è il profumo, è la puzza, dell'Africa, è la consistenza umida dell'aria dell'Africa con il suo olezzo dolce e salato, ad ogni latitudine, quella che ti avvolge da subito quando esci dal portellone dell'aereo, dovunque tu sia, è quella, dal Cairo a Johannesburg, da Freetown a Maputo, da Abidjan ad Addis.

In questi giorni, quando mi alzo e non sono ancora le sette, ancora fresco di doccia apro la porta della mia camera che dà su un ampio cortile-giardino al centro di questo complesso alberghiero di camere-cottage per farmi investire da una ventata di quell'aria già calda, che reca con sé quell'odore lì. Ce l'ha solo l'Africa, che pure è grande, ma la pervade ovunque. Un odore umido, leggermente speziato, come di legna bagnata esposta al sole, con un retro di sterco, di cibo fermentato, ma anche di profumo dolce di mango e di papaia. Non è fetido, sa di fermentazione che ribolle e di fresco, sa di natura. Non come il profumo d'erba e fiori del nostro maggio, non quel tepido odore della nostra prima primavera né l'odore fermo della calura afosa dell'estate in città. Un odore che rende l'aria un mantello, con una sua consistenza che ti avvolge. Il mattino africano entra in camera con quell'effluvio e quell'aria che ha una "densità" africana, un afflato che non ho provato in Cambogia e in Afghanistan e neanche in Messico o in Brasile. L'aria sta come sospesa e sembra meno leggera che sui nostri monti e porta il suono degli uccelli, che non è un cinguettio e neppure un vero e proprio canto, quel suono che noi banalmente chiameremmo "tropicale". Sono uccelli che non si vedono dalle nostre parti, naturalmente, dalle code lunghe o i colori vivaci, piccoli e grandi. Ma ci sono anche i più noti corvi e cornacchie, rumorosissimi, che fanno un po' senso quando camminano con quel corpo grosso ondeggiando e puntando il loro becco con antipatica insistenza. Hanno quell'aria strafottente del corvo del film di Roger Corman e niente di magico.

§ –

L'uomo che mi porta in giro per la città arriva alle otto, puntuale nella sua automobile imponente, un fuoristrada Toyota come ce ne sono mille qui. Il signor Habib Conteh Bangura ha il volto segnato dal vaiolo, la sua pelle è scurissima come i Mandingo e le popolazioni che vengono dal Mali. Ha lo spirito di un ragazzo e ride ossequioso. Quando mi ha mostrato la sua patente non ho riuscivo a credere che fosse nato il 25 febbraio del '43. È musulmano, si veste di seta con una certa eleganza il venerdì e dice che non capisce i musulmani che ammazzano in nome di Allah – dat no gud mi dice in creolo scuotendo il capo –, ha avuto degli avi hagi, qualcuno dei quali sarà stato a La Mecca, ma lui non lo sa. Non ha mai studiato, ma sa leggere e scrivere, ascolta la radio e ripete i nomi difficili o sconosciuti, per divertimento. L'altro giorno ripeteva Indonesia, come se non l'avesse mai sentito – in-do-ni-sia, ripeteva, oppure Cyprus, sa-i-prus, ripeteva ridendo. Guadagna cinque dollari al giorno, che gli passa il suo boss, proprietario dell'auto, mi porta dove devo andare, mi aspetta tutto il giorno, dorme in automobile, la notte non so perché non dorme, ma al mattino mi dice sempre che «non è riuscito a dormire». L'altra notte, ho saputo poi, era perché tutta notte lui e sua moglie hanno dovuto procurarsi l'acqua che manca durante il giorno. Il problema era, però, che mancava anche l'elettricità.

Il signor Conteh, cui il padre mise questo nome che non era di famiglia, in onore di un suo amico morto, l'altro giorno ha preso una multa perché aveva parcheggiato in seconda fila. La polizia urbana qui non fa "multe", è solo una scusa per farsi dare qualcosa. Il signor Conteh, che ha un forte senso dell'autorità, maledice i poliziotti e ogni volta che ne vede uno brontola, perché dice che ne approfittano e vogliono solo braibes. Quando il poliziotto si è avvicinato per fargli notare che era in seconda fila – un'eventualità comune, va detto, nelle strade del centro --, Conteh non aveva nulla con sé e allora il poliziotto per fare lo zelante lo ha portato in centrale, sapendo che questi avrebbe chiamato il suo boss che si è poi presentato dicendo che era responsabilità del signor Bangura se aveva parcheggiato in seconda fila e che lui non poteva fare nulla, il pusillanime. I suoi colleghi lo hanno aiutato a venire fuori – dopo essere stato fermato per 7 ore – pagando venti dollari di multa, il salario di quattro giorni di lavoro. Nel lascialo andare, il poliziotto gli ha restituito la patente che lui ha subito intascato andandosene brontolando. Il giorno dopo, però, Conteh si è accorto che quella carta plastificata non era la sua patente e così mi ha dovuto raccontare di tutto l'episodio e che in giornata avrebbe dovuto tornare in centrale per riavere la sua patente. Ciò gli è costato, come è ovvio, una seconda lauta mancia per il poliziotto e il suo comandante. Il signor Conteh dice sempre che ai tempi della colonia e nei primi anni d'indipendenza – quando a Freetown c'era la ferrovia che portava da una località all'altra, una sorta di metro sopraelevata – si stava benissimo, queste cose non sarebbero mai successe, la vita era semplice e nulla era caro com'è oggi. Poi sono arrivati certi presidenti – bad, very bad – e i militari – terribol – e quelli che tagliavano gambe, braccia e teste e i bambini assassini. Quando nel mio albergo è venuto Peter Penfold, che fu Alto Commissario durante tre anni della guerra, lui me lo ha subito indicato con grande rispetto: un grande uomo, ha detto Conteh Bangura.

Il signor Conteh non mangia durante il giorno, probabilmente per abitudine, si lamenta dei ragazzi che con le motociclette passano ovunque e dei taxisti che tagliano la strada. Ma critica anche quelli che pisciano per la strada, e non sono infrequenti. Oggi, giorno di Good Friday, ho chiesto al signor Conteh di portarmi giù alla foce del fiume Numero 2 (che forse ce l'ha un nome che gli hanno dato le popolazioni locali, ma tutti lo chiamano così, anche le carte geografiche). È un bel posto perché il fiume segue la spiaggia per un lungo tratto oltre la foresta, formando una lunga lingua di sabbia dove qualche libanese ha costruito alcune capanne per farne un piccolo centro balneare per turisti stranieri per lo più. Il posto si trova ai margini di un villaggio di casupole e capanne, sorto ai margini delle baracche in blocchi di cemento costruite dall'esercito nigeriano – come mi dice il signor Conteh – al tempo in cui furono chiamati a sostenere il governo eletto contro i ribelli foraggiati dal temibile Charles Taylor, il feroce dittatore liberiano.

Lungo la strada di terra rossa cresce la foresta incolta, nella quale centinaia di capanne in legno e latta popolano la costa. I camion e i fuoristrada sollevano nuvole di polvere rossa che copre tutto e tutti e al nostro passaggio i bambini guardano sempre cercando un saluto mentre gli adulti seguono con lo sguardo vuoto il moto incessante di un mondo che non li riguarda e che però li ricopre di un pesante velo di polvere secca. Giunti al villaggio – dal nome di Sussex, qui molte località hanno mantenuto i nomi lasciati dai coloni – mi aggiro tra le capanne prima di fermarmi per un po' alla foce del fiume. Stormi di gabbiani a centinaia stanno sull'altro lato del fiume, così largo in quel punto che paiono lontani moscerini che si spostano a nugoli alzandosi in volo tutti insieme roteando un poco nell'aria per tornare a posarsi solo qualche metro più in là. Non ci sono zanzare sul mare, una brezza lieve porta l'odore dell'oceano che si frammista agli odori di cucina che provengono dal villaggio. Giovani turisti dalla pelle bianca e dai capelli alla "rasta" con la bicicletta sorseggiano tazze bianche al bar, appena alzati, scalzi, "come i locali". Due coppie di ragazzi neri, di quei nouveau riches che ora si distinguono anche agli occhi dei locali perché parlano come loro – creolo –, si comportano come loro ma sono vestiti "bene" e hanno telefoni touch e computer e fuoristrada, giungono seguiti da una copiosa nuvola rossa – il signor Conteh si era avvicinato al villaggio a passo d'uomo per non sollevare polvere –. Dai fuoristrada scendono bambini vestiti, con vistose scarpe sneakers ai piedi e con giocattoli in mano, pronti a saltellare ovunque come i loro coetanei del luogo e a piangere alla prima caduta.

Nel villaggio si intravedono le donne, i bambini e i ragazzi che non si mostrano. Solo quando mi fermo a fare una foto alle tombe invase dalle erbacce sbuca un ragazzo che mi osserva mentre leggo le poche lapidi distinguibili. Dunque la sua nonna è stata sepolta lì, proprio dietro casa, per così dire, dietro una capanna che con la prossima pioggia si sarà già scomposta per poi venire rimessa in piedi la stagione dopo. Non si sa che età avesse, era vecchia, dice, la più vecchia del villaggio. C'è anche la tomba di un norvegese morto la vigilia di natale dell'anno scorso, nato nel '36, con la scritta in norvegese. Chissà se era un hippy rimasto stecchito qui per caso o se aveva deciso di morire e farsi seppellire in questo luogo lontano.

Mentre cammino ai bordi del villaggio, nessuno mi chiede nulla, nessuno mi dice nulla, li sento dietro alle pareti di lamiera, tra le capanne, ma non voglio intrufolarmi per sola curiosità. Torno alla macchina e chiedo al signor Conteh di portarmi al ristorante dell'italiano, che si trova mezzo chilometro più in là dove c'è un villaggio ancora più grande, con case e costruzioni di ricchi della città che stanno creando qui il loro entourage per i fine settimana. Ma c'è anche il villaggio dei pescatori e la mansione con la scritta ormai arrugginita Franco diving club e il Florence Restore. Quando entro, sono ancora le 11 del mattino, l'aria calda sotto il grande patio ricoperto entra rinfrescante e una donna mi accompagna al banco dove un giovane alto e robusto, mulatto, mi chiede con cortesia se voglio fare il mio ordine. Lo guardo e mi immagino che sia il figlio dell'italiano, di Franco probabilmente. Gli chiedo se hanno il granchio al vapore che vedo nel menu, faccio l'ordine, guardo la lista dei vini che sono troppo costosi e decido di bere birra. Quando gli chiedo se c'è il proprietario e se è vero che è italiano mi porge la mano per salutarmi e mi dice «anch'io sono italiano, sono Fabrizio, Franco è mio padre, se vuole salutarlo è di là». Guardo dentro la cucina e lo vedo, un uomo grande, occupato a dare ordini, e rimando a più tardi.

Così, faccio un giro per il villaggio, un gruppo di bambini di ritorno dalla messa mi si fa incontro e una di loro mi abbraccia. Sono vestiti bene, puliti, mi dicono che la bambina è stata battezzata. Vogliono una foto. Poi se ne vanno saltellando e intonando una canzone in coro. Incontro anche un pescatore di granchi e aragoste che mi dice che quei grossi crostacei che ha dentro la sua cesta sono proprio per il ristorante. Se ne sta seduto sono un albero alto e gli dico «con quelli avete fatto la giornata», e lui sorride. Gli chiedo se me ne vende uno e risponde in inglese più formale che sono già "prenotati". Quando dopo un'ora sono di ritorno il ristorante si è popolato, il patio è affollato, ci sono molti libanesi e neri, qualche europeo. Il mio granchio è pronto e lo gusto come non lo ricordavo, e ce ne vuole a mangiarlo, e riesco a finire tre bottiglie di birra nel caldo che si è fatto forte. Di fronte a me osservo che la marea è scesa e ora si può camminare per almeno un centinaio di metri fino al fiume che appare piccolo e stretto in quel punto. Scalzo, attraverso le sabbie umide che sembrano mobili per quanto si sprofonda, fino al bordo del fiume, ma non ho voglia di bagnarmi e sfidare la corrente per raggiungere la lingua di sabbia e la spiaggia sull'oceano.

Quando torno sui miei passi verso il ristorante, entro per conoscere il Franco. È seduto ad un tavolo nel mezzo dell'ampia cucina e tiene dietro agli ordini. Ha la corporatura di un vecchio capo indiano, come quello che nel Nido del cuculo alla fine libera Jack Nicholson dalla pena, i capelli lunghi e bianchi, la pelle bianca sulla quale grossi nei appaiono anche più vistosi, gli occhiali rayban che gli cadono continuamente sul naso, i denti anneriti. Ha l'aria affabile e mi chiede di dove sono. Quando gli dico Bologna mi chiede: «Bologna Bologna? Io sono di Modena». Modena dove? «Ah, io sono della Bruciata, come Pavarotti, siamo cresciuti insieme noi, alla Bruciata, eravamo amici amici, ma poi ...» Franco ha voglia di raccontare, sembra, mentre fa i conti e tiene sotto controllo gli ordini. «Eravamo tre amici, io, Pavarotti e Emilio Negro, che studiò per fare il chirurgo. È andato in Africa, ci è stato vent'anni, dice che ne ha viste che non ne vuole più sapere, lui si è sempre appassionato d'arte che ora fa il critico d'arte a Bologna, scrive dei libri, forse lo hai sentito dire...».

Attacca subito come avesse interrotto un racconto cominciato il giorno prima. «Era il '77, dovevo andare in Grecia, io facevo sub, a quel tempo davano finanziamenti a fondo perduto, io conoscevo della gente, anche del tempo dei colonnelli, prima sono andato in Dalmazia, poi a Corfù, poi sulle isole, avevo un amico, sarebbe stato il mio socio, io lavoravo alla Tetrapak, mi hanno assunto e licenziato quattro volte e quella volta avevo deciso che era l'ultima, insomma il giorno che dovevamo andare via gli avevo detto di chiamarmi in azienda, e siccome era dopo le sei avevo detto al centralino che aspettavo una chiamata e di girarmela giù in reparto. Però alle nove, all'ora concordata, non arriva nessuna telefonata. Allora vado a casa, e il giorno dopo telefono, il mio amico viveva con tre fratelli e una sorella e quando uno di quelli risponde gli chiedo ma c'è Tanassi? Io li conoscevo e quindi riconoscevo la voce, non era il mio amico, insomma c'è? Sì c'è, dice lui, allora passamelo, e quello scoppia a piangere... insomma Tanassi era andato a Genova, dove lavorava, e quel giorno era in motorino, era tornato a Genova per salutare, mentre andava si rovesciò all'indietro e cadde fracassandosi la testa, sul colpo. Sai, a quel tempo, non si portava il casco...». Franco usa questa parola, fracassandosi, la ripete, il suo racconto è vivo, ricco di particolari. «L'hanno portato a Modena con i suoi soldi con cui dovevamo fare il bisness... Così non sono andato in Grecia». Ma come ci sei capitato qui? Per fare sub? «Macché! Un amico un giorno mi ha chiesto se volevo andare in Sierra Leone, per aprire un'attività, lui lavorava nelle costruzioni, io non sapevo neanche dov'era... Sierra Leone?». Ma quanto tempo fa è stato, da quanto tempo sei qui? «Era il 1978, non me ne sono più andato». Eri qui durante la guerra? «Non mi sono mai mosso, io non mi faccio mica spaventare, ho mandato la famiglia in Italia, sono rimasto qui, come Rambo, avevo un mitragliatore piazzato all'entrata e fucili e mitra, alcuni uomini, nessuno mi ha mai dato fastidio. Io li conosco tutti, quelli, Sankoh, gli altri. Gli altri hanno più colpe che Sankoh, però lui lo hanno ammazzato e lo diceva al processo, siete tutti colpevoli». Ma tu dici che lo hanno ammazzato? Non era morto in albergo? «Ma secondo te si muore così, in albergo? Lo hanno avvelenato, certo... « E quell'altro, Mosquito? «Sì Mosquito Bockarie era uno feroce, ma anche gli altri... Adesso, questo Presidente non è male, ma si circonda di criminali, di gente che vuole solo soldi... e tu, per chi lavori?», mi chiede guardandomi di sbieco. «Io, lavoro per il governo, al "programma di riduzione della povertà"», gli dico scandendo le parole, con un po' di reticenza, «ma sono pagato dal governo inglese». «Anche tu, eh... sei messo bene, allora». Ride. Mi dà una manata. Mi racconta di antiche rovine che hanno scoperto nel nord, ha fatto venire un suo amico antropologo, ha scoperto un gigantesco scheletro di pesce che è lì nell'atrio, mi dice, «quando esci guardalo!». Mi dice del Ministro del Turismo, con cui è amico, che una volta lo ha invitato a casa sua e non c'era l'acqua corrente. «Ma come si fa senz'acqua corrente? Allora io gli ho chiamato un plumber che conoscevo e il giorno dopo gli ho detto, ecco adesso la tua tazza del cesso ha la catena e puoi fare la doccia..». Il modenese imprenditore, penso guardando le sue mani grosse e gli occhi larghi e i capelli da indiano. Non smetto di pensare, nel guardarlo, all'indiano. «Devi andare nel Paese, dentro, nei villaggi, se vuoi vedere la povertà. Ce n'è, ce n'è che non finisce più...». Lo saluto chiedendogli se si può anche dormire, da lui. «Ovvio, mi dice, siamo pieni in questi giorni di Pasqua, ma quando vuoi, torna!». Il signor Conteh mi riporta all'albergo, guidando con attenzione lungo il nastro di terra rossa. Di povertà ce n'è che non finisce più...

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L'altra sera ho preso un taxi, non volevo disturbare Conteh. Sono centinaia le macchine con una striscia gialla sul lato che dice solo west ward, se sono in questa zona occidentale della città, taxi in piena regola, con il simbolino dell'associazione dei taxi. O meglio, sono auto che seguono percorsi precisi e si sale e si scende a seconda dell'itinerario che si ha in mente. Una corsa va dei 1.000 ai 5.000 Leones (dai 20 centesimi all'equivalente di un euro), a seconda della distanza. Il traffico è sempre caotico, sulla macchina scassata salgono fino a cinque persone, più l'autista, in due sul posto del passeggero e in tre dietro – e forse ne prenderebbero su un altro se non fosse per me –. Non sono frequenti gli europei o i libanesi che prendono il taxi. La musica gracchia a tutto volume, il cruscotto non fa luce, l'autista ha con sé una torcia elettrica con la quale ogni tanto lo illumina, forse per vedere il livello della benzina. Nessuno dice nulla e quando una voluminosa signora, con un bel vestito africano, entra con un sacco di plastica dove tiene probabilmente del pesce appena comprato, nessuno fa una piega, come si dice dalle nostre parti. Il pesce non sembra troppo fresco, penso, il sacchetto trasuda e goccia sul vestito della donna. Quando un'altra donna prova ad entrare, non ce la fa a sedersi – i loro deretani sono troppo voluminosi per condividere lo stesso posto – e chiede di scendere immediatamente. La donna fa un verso come a dire "quanto è schizzinosa, questa".

E ripenso a quando giravo per Addis, era il '94, non avevo la macchina né l'autista, e circolavano dei mini-van che facevano da taxi, come dei piccoli autobus, caricando dalle dodici alle quindici persone persino. E mi torna in mente quella volta che una donna salì con un agnello vivo e quando fu per pagare doveva cercare il borsellino e allora mi chiese di tenere l'animale per un attimo. Il fortore della bestia lanosa era aspro, caldo, e l'odore di sudore e sterco dominava il veicolo stipato di gente. Però, nel vedermi con la bestia in braccio, che stendeva le zampe magre di qua e di là, i presenti si guardarono a vicenda e scoppiarono a ridere, che dovevo essere parso molto impacciato. Questo Paese è ancora come era l'Etiopia quasi vent'anni fa – e chissà che non lo sia ancora –: nemmeno Maputo, tanto meno Luanda mi sono sembrate ancora così scombinate. Dunque dovranno passare vent'anni? Le strade sottosopra, con voragini enormi – ad Addis c'era una sola strada asfaltata, le vie del centro erano per lo più bianche – le auto vecchie, vecchissime, usatissime. Quando giungiamo a destinazione, l'autista non ha resto per tutti. Mille Leones, che per me sono niente, fanno la differenza e nessuno vuole lasciare nulla a nessuno, quasi si mettono a litigare, tanto che l'autista lascia andare con un gesto, «mi pagherai poi». E io gli lascio una banconota più grossa delle altre.

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L'altra sera, prima di cena, ho voluto camminare lungo la spiaggia davanti all'albergo. È piacevole, al tramonto, camminare sulla sabbia, per quanto sporca di detriti, plastica e ogni sorta di rifiuti, con i cani che corrono qua e là scalcagnati. Qualche ragazzo si avvicina sempre per chiedere qualcosa, ci sono sempre ambulanti per la strada che vendono le loro cose. Quella sera ho preso a destra, verso il promontorio del capo, invece di andare, come al solito a sinistra lungo la lunga, larga striscia sabbiosa. Il capo è roccioso, ricoperto di una vegetazione scarsa e qualche albero, circondato da un lungo recinto con filo spinato che delimita una proprietà. Dall'altro lato del promontorio sorge il vecchio faro. Avvicinandosi agli scogli, superando le bottiglie, le lattine e i sacchetti ormai impastati dalla sabbia e dall'acqua, mi sono incamminato su per le rocce con l'intenzione di arrivare a vedere il sole posarsi.

Osservavo i sacchi di nylon e tela portati dalle onde, adagiati sulla riva come corpi informi. Quegli stessi sacchi dove mettono il carbone di legna da vendere per i bracieri di casa. E gli stracci semi-sepolti dalla sabbia. E ogni sorta di rifiuto: bicchieri di plastica, lacci, scarpe, ciabatte, pezzi di vetro, di legno, pneumatici a brandelli, accendini a pezzi, barattoli, bacinelle tagliate, spazzole e rossetti, specchietti, cartoni deformati, scatoloni per bottiglie, tappi, scatole di detersivo, sacchetti di ogni colore e grandezza, innumerevoli, ribollendo tra le onde, appena fluttuando, emergendo e svanendo sotto la corrente sabbiosa. Bottiglie verdi di Sprite, bottiglie arancioni di Fanta, lattine di Coca cola e di Vicco, distinguibili tutte per i colori. E pezzi unici: una borsetta di finta pelle, un borsellino, una custodia di telefono, un paio di occhiali da sole. Diversamente dai rifiuti abbandonati ai bordi delle strade, in mucchi o sparsi, che spesso fumano nauseabondi, tra le plastiche che ardono e le gomme che colano, i rifiuti marini vengono portati dalle onde in modo da formare lunghe strisce semicircolari sulla spiaggia, dove l'onda rallenta fino a ritirarsi. Sono come i resti di un enorme naufragio, i resti di una civiltà travolta dal mare, che in realtà è lì dietro, sulla strada, incurante, e rovescia in mare i suoi detriti che non riesce ad assorbire. Quando si cammina per la strada o si procede in auto a passo d'uomo per il traffico, a centinaia venditori ambulano con le loro merci, offendo pacchetti di questo o quello, scatole e scatolette, barattoli, quelli che in una parola vuota chiamerei solo oggetti, senza nome, indistinti. Il discrimine tra qualcosa che è "utile", che ha un prezzo quindi, e qualcosa che è già rifiuto è labilissimo. Quante di quelle scarpe, spazzole, specchietti, accendini, bottiglie, che giacciono a riva sarebbero di valore per qualcuno e per il solo fatto che sono lì, sulla spiaggia, sbatacchiati dalle onde, sono di nessuno, senza valore. E perché, nonostante la povertà di quei poveri cenci venduti a 10 centesimi nessuno viene qua a raccogliere questa enorme cornucopia, come fosse la testimonianza di una civiltà spazzata via dal cataclisma. Forse perché nulla di questo ha valore, già di per sé, ed è già rifiuto all'origine, solo che passa ancora di mano in mano, finché qualcuno è disposto a pagare, finché non finisce di là dal bordo della strada, sul lungomare, e la sua storia è finita. Fa riflettere che qui, nonostante la povertà e l'indigenza, consumismo e pauperismo convivano così: è il nuovo mondo capitalistico, questo, dicono, non è più come una volta: parsimonia e spreco vanno di pari passo, anche i poveri vogliono il telefonino appena hanno di che sfamarsi. O forse, non c'è niente di nuovo sotto il sole?

Camminando, come distratto da queste astratte considerazioni, avevo appena seguito con lo sguardo una bella scarpa da ginnastica che le onde sballottavano sulla sabbia, cercando la sua compagna e individuandola più al largo. Saltellando da uno scoglio all'altro il mare si faceva più vicino, le onde infrangendosi schiumose sulle rocce lisce dove, accanto ai resti appena portati frequenti erano però anche gli escrementi ormai secchi. Quello sterco umano, nel procedere, si faceva più evidente, forse anche perché altri resti erano meno frequenti: escrementi, feci, cacche, di forme e colori diversi, solidi rifiuti umani delle varie tonalità tra il giallo e il marrone per lo più stampati sulla superficie rugosa delle rocce, appena toccati dalla schiuma marina.

Se da questo lato della costa, verso la spiaggia, numerosi erano ancora i capannelli di ragazzi e la gente sparsa al calar del sole, arrampicandomi sulle rocce e allontanandomi a lato della recinzione lungo il promontorio, questo appariva via via più solitario. Scrutando con curiosità, come quando ci si inerpica sulle rocce, con cautela, ma anche con lo stupore di incedere in un paesaggio nuovo, passo dopo passo, notavo altresì il piacevole svanire in sottofondo del rumore della folla e delle auto e dei motori man mano che procedevo e quella sensazione di solitudine diveniva ancora più suadente alla vista del sole ormai prossimo al tramonto. Con fastidio rifiutai l'approccio di un giovane, la maglia di un rosso vistoso e i capelli lunghi, annodati e sporchi, uno di quelli che avevo visto davanti all'albergo bighellonare, che improvvisamente sentii sbucare da dietro, chiamandomi "my uncle, what's your name? I play guitar, I can play for you" e che evidentemente mi aveva seguito dall'inizio. Liberatomi del fastidio con un saluto inespressivo, ho proceduto fino a raggiungere la rete che taglia fino al mare la scogliera, circondando quello che un tempo era il terreno dove si ergeva l'Hotel Holiday Inn, ora in rovine. Ho superato ancora diverse placche di escrementi rinsecchiti e passato anche un uomo che pareva seduto ad ammirare il tramonto e mi sono sentito quasi contento, in fondo, di condividerlo con questo solitario visitatore che, per una volta, non aveva da importunarmi e se ne stava raccolto in contemplazione senza prestarmi la benché minima attenzione.

È stato solo quando mi sono voltato per tornare indietro che ho capito la ragione della sua contemplazione. Da davanti ho visto ciò che non potevo notare da tergo: le gambe aperte, l'uomo stava semplicemente defecando, assorto nello sforzo di fronte all'orizzonte. Non c'è bisogno di ripensare a quella libertà di cui parlò Montaigne nell'apprezzare la speciale quiete che quello specifico momento richiede e che l'uomo si era conquistato davanti ad un panorama invidiabile. E solo allora ho capito il senso di tutte quelle chiazze secche, tra gli anfratti degli scogli come sulla liscia superficie lasciati come impronte, come una minestra rovesciata per terra, non informi residui terrosi ma solidi rifiuti umani, cacca. E che non fosse un caso isolato me lo ha confermato anche il musicista importuno che ha fatto finta di non vedermi essendo concentrato nell'espletare il momento clou del suo bisogno. Passatolo, ho seguito con lo sguardo la traccia delle defecate lasciate nei giorni, prima che il mare le lavasse via, per vedere anche una ragazza che, incurante del mio arrivo, si è sbottonata i pantaloni (di un bianco che si notava) e si è accovacciata per fare il suo bisogno appena coperta dallo sguardo della spiaggia in lontananza. Devono darsi il turno, ho pensato, in un avvicendarsi che lasci una certa dignità alla cagata solitaria in contemplazione del mare, per non trovarsi tutti insieme, ad una certa ora del giorno, ad affollare la scogliera per lasciarvi l'espletamento quotidiano.

Sulla spiaggia, al solito, cani randagi indugiavano indolenti e sporchi. Al mio passaggio, come per una animale parodia, uno di questi si è messo a defecare nella sua posizione poco elegante espellendo le feci solide e appallottolate sulla sabbia grigia, anch'esso rivolto verso occidente. Come sono sporchi i cani, ho pensato, vedendolo andarsene senza nemmeno guardare il suo prodotto né tanto meno ricoprirlo, come avrebbe fatto il più igienico gatto. Ma, in fondo, ho riflettuto, non c'era una traccia di carta su quegli scogli, mai. Cosa mai useranno? Di povertà ce n'è che non finisce più...

§ –

L'altro giorno, avevo chiesto al signor Conteh di portarmi nell'interno del Paese, un viaggio di più di 200 km, che volevo vedere questo villaggio di cui avevo sentito parlare, un villaggio povero nella zona orientale che un giovane locale, un tal Shaka Forna, di quelli che hanno fatto "fortuna", si dice stia facendo di tutto per aiutare a "uscire dalla povertà", costruendovi rifugi per ospitare quei turisti che volessero vedere "la realtà da vicino". Ero un poco curioso e un poco diffidente, perché succede che persone ricche e famose si facciano prendere dal rimorso, dalla nostalgia o dalla gratitudine, e decidano di tornare al paese e far vedere quanto sono diventati ricchi e famosi. Quando ho detto al signor Conteh che volevo visitare questo Rogbonko village mi ha guardato male, con diffidenza. Non sapeva dov'era, voleva sapere perché volevo andare proprio là, così lontano. Gli ho detto che dovevo andare a incontrare un tale. Gli ho chiesto di presentarsi alle sette e mezza. E così ieri si è presentato, puntuale e con suo figlio, un ragazzo di quindici anni, per fargli fare il suo primo viaggio fuori Freetown. Quando siamo arrivati nella città più vicina, abbiamo cominciato a chiedere in giro e nessuno ne sapeva niente. Io avevo indicazioni abbastanza precise: a Magburaka, prendere per Magbesseh street, poi cercare la Magbass sugar plantation, poi prendere a destra per il villaggio di Rochain e poi prendere a sinistra fino a raggiungere il fiume. Conteh si era fatto nervosissimo, come se lo stessi portando nel nulla. Nella regione del nord-est già quasi nessuno parla inglese, al massimo parlano creolo e comunque tutti parlano la lingua locale, che è anche la lingua del signor Conteh. Quando siamo riusciti ad arrivare alla piantagione – una distesa enorme di canna da zucchero di centinaia di ettari di proprietà di un cinese – eravamo già in un altro mondo. Le case avevano lasciato luogo alle capanne, le auto quasi sparite, alcune motocicli, le strade non più asfaltate, palmeti seguivano campi coltivati (a mano) a cassava e mais, vicino ai torrenti, e piccoli villaggi di capanne e rifugi coi tetti di frasche in piccoli gruppi.

Ad ogni incontro lungo la pista, per essere sicuro di non perdersi e che davvero stessimo andando da qualche parte precisa, Conteh si fermava a chiedere conferma che fossimo nella direzione giusta. Abbiamo incontrato un uomo che ci ha dato un'indicazione sbagliata, uno che non capiva la nostra domanda, uno che ci ha detto di proseguire. Abbiamo incontrato anche due signori, elegantemente vestiti con due lunghe tuniche bianche, sicuramente due musulmani che venivano dalla moschea, che ci hanno rassicurato che il posto non era lontano – «solo venti minuti di cammino», hanno detto – , solo tre chilometri. Finché non abbiamo incontrato un ragazzo che sapeva bene del posto, parlava inglese, e ci ha detto che quello era proprio il suo villaggio: "ya, that's my place", ha detto contento. Così, per una volta, lui è arrivato al villaggio in macchina, e si è sentito importante, che tutti i bambini lo hanno circondato e ci hanno accolto felici.

Siamo entrati nel villaggio, derelitto e misero, e Conteh mi ha guardato come per dire «ma perché fare tanta strada per venire qui?» Donne con un solo panno attorno alla vita, il seno scoperto, ragazzi vestiti di stracci, un magra desolazione. Il ragazzo, Habib, ci ha portato al fiume, forse ritenendo che fosse la cosa più interessante del luogo, dove i bambini giocavano allegri, per la maggior parte nudi, tra le fronde verdi degli alberi chini sull'acqua placida del fiume. Eravamo in quella vecchia Africa che eppure esiste ancora. La cosa buffa è stata che tutti, a differenza di Freetown e delle altre città, volevano una fotografia, non brontolavano per un scatto rubato e anzi ne reclamavano uno. Conteh mi guardava ancora con sospetto quando è comparso un uomo, in jeans e con la camicia, come venisse dalla città, presentandosi come Abbas Forna. Gli ho detto di Shaka e che ero venuto per vedere il villaggio, e questo ci ha presentato. Abbas ci ha portato a vedere le costruzioni più nuove, il piccolo chalet, la cucina. Quando Conteh ha sentito e ha chiesto lumi, Abbas, gli ha risposto nella sua lingua e allora ha gridato: «Ah, me lo doveva dire, signor Pier, che lei conosceva Shaka Forna! Ma lo sa che Mohamed Forna è il mio miglior amico?». Ora avevo l'approvazione di Conteh.

Abbas ci ha portato in giro per il villaggio, spiegandoci che ogni hanno Shaka aiutava una famiglia del villaggio a costruire una vera casa, ancorché di adobe (mattoni di argilla secca), ma pur sempre meglio di una capanna. Ci ha anche raccontato della più famosa sorella di Shaka, Aminatta, che vive a Londra ed è scrittrice di un certo successo – Abbas ha menzionato due dei suoi libri –, che ha fatto costruire una scuola per il villaggio. Dopo il giro, Abbas ha ritenuto di presentarmi al Consiglio degli Anziani, dieci signori riuniti sotto il tetto di una delle capanne. Pareva fossero lì da molto tempo e che comunque quello fosse il luogo dove passavano la maggior parte della giornata, parlando di non si sa che. Ad uno ad uno, mi sono stati detti i nomi di tutti, incluso il paramount chief, e ad ognuno ho stretto la mano. Abbas mi ha chiesto di dire due parole, che ha prontamente tradotto e alla fine ho anche ricevuto un applauso. 

Uscendo dalla capanna i bambini mi sono corsi incontro, e anche qualche donna, affaticata dal peso del carico trasportato sul capo. Ho fatto fotografie, su richiesta, e ho aperto lo sportello dell'auto per salire. Avevo un cespo di banane rosse che avevo comprato ancora sulla strada asfaltata, prima dell'ultimo centro abitato. Quando i bambini le hanno viste hanno cominciato a chiedere con insistenza: solo in quel momento ho visto la loro fame. La più grande di loro, che per vergogna non osava allungare la mano, appena avuta la sua banana l'ha però immediatamente porta alla donna che stava di fronte a me, inespressiva, con la pesante tanica d'acqua in testa, dolorante. E la donna ha agguantato la banana divorandola con un misto di vergogna e rabbia.

Abbas si è avvicinato a me e con fare molto gentile ha cominciato: «Signore, ho un problema...». Pensavo che ovviamente volesse chiedermi dei soldi. Invece, mi ha indicato suo fratello, dicendo che da qualche giorno non stava bene e aveva bisogno di essere portato alla città più vicina. Ho guardato Conteh, gli ho chiesto se andava bene, e così ci siamo trovati con altre tre persone in macchina: Abbas, il fratello e la moglie del fratello, e le borse varie. Solo dopo abbiamo visto e capito che il suo stato era parecchio preoccupante. Appena giunti al centro abitato, dopo una buona mezz'ora di pista, debolissimo, l'uomo è sceso dall'auto a fatica, con la moglie appresso e le sue borse. E dentro le borse aveva tutto: coperte, vestiti, scarpe, una fibbia, sembrava un ninnolo, come fosse qualcosa che gli era caro, forse pensando che non avrebbe più fatto ritorno. Abbas mi ha chiesto se avrei potuto dire una parola buona a Shaka, e fargli sapere "lui è sempre lì ad accogliere i visitatori". Ho rassicurato Abbas che era stato un ospite eccezionale e Shaka non aveva ragione di dubitare perché il suo villaggio e la sua opera erano in ottime mani. Shaka e Aminatta, bisogna dire, quali che siano le loro motivazioni, stanno facendo qualcosa, di cui quei ragazzi come Habib saranno un giorno grati. Ho pensato a lungo a quei bambini e alla lor fame, e anche Conteh diceva «hunger! Terrible!», a quelle persone che le vedi accendere la legna, fare da mangiare, andare al fiume, andare alla sorgente a prendere l'acqua camminando per chilometri, star dietro alle poche piante che crescono nel campo vicino, sostare e passare la giornata sotto gli alberi che il sole è troppo caldo, vivere di quel poco, pochissimo. Quanti ne abbiamo visti dalla strada e in lontananza. Forse con quella banana, avranno pensato le mamme contente, almeno per oggi il problema di cosa dare loro da mangiare era risolto. Di povertà ce n'è che non finisce più...

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Tornato a Freetown dopo il viaggio nel nord-est, ho cercato su internet qualche informazione di più su quel villaggio derelitto per scoprire che il suo nome, Rogbonko, significa "luogo nella foresta" nella lingua Temne e che fu fondato dal nonno di Aminatta e Shaka che era agricoltore e coltivava caffè. La guerra civile cominciata nel 1991 tagliò fuori il villaggio, come tutto il nord-est e il sud-est da ogni contatto con il resto del Paese e fu allora che cominciò il suo declino. Oggi la foresta si è ridotta, abbattuta dalle piantagioni di zucchero e dai palmeti, e di caffè non ce n'è abbastanza neanche per i locali che vivono di "agricoltura di sussistenza", cioè sopravvivono come possono. Il signor Conteh mi ha anche detto che lui conosceva bene Mohamed Forna e che questi fu impiccato da quel criminale di Siaka Stevens, che fu presidente e poi dittatore. Il sorprendente Conteh: quando mi racconta la storia di Mohamed Forna penso come mai un tale – suo amico – venga impiccato dal presidente-dittatore. Dunque Conteh aveva amici importanti? Il fatto è che Mohamed Forna non fu persona qualunque...

La Storia stende sempre il suo lungo mantello a coprire la vita di chi essa sfiora. Ho cercato su internet qualche informazione su questa Aminatta Forna per scoprire che è una scrittrice "nata in Scozia, che a sei mesi è stata portata in Sierra Leone e ha vissuto in Zambia, Iran e Thailand". Non una Salonese, quindi, sembra che Aminatta ci tenga a dire. La sua breve biografia sulla sua pagina web non dice che suo padre era un Salonese, solo accenna al fatto che lei ha scritto un libro sul padre dissidente senza menzionare che questi fu ucciso. Lascia però interdetti la sua reticenza a fare il nome del padre, Mohamed Forna, un medico che dopo aver sposato Maureen Christison, scozzese e presbiteriana, decise di tornare al suo paese con la famiglia nel 1964, si diede alla politica nel 1967, quando sembrarono aprirsi le porte alla vera democrazia con la nascita della Repubblica, e fu tra i fautori della vittoria politica del partito che portò al potere Siaka Stevens, l'APC. Mohamed divenne Ministro delle Finanze di Stevens, che diceva di ispirarsi a Kaunda e Nyerere, fu popolare e vicino alla popolazione, ma quando la violenza politica e la corruzione divennero per lui inaccettabili decise di denunciare pubblicamente il suo dissenso, per finire così arrestato e restare in galera quattro anni dal 1970 al 1974. In un processo che durò mesi, accusato addirittura di tradimento, Mohamed venne alla fine condannato per essere poi impiccato, nel luglio del 1975, nella prigione di Pademba con altri 14 "traditori", tra cui Ibrahim Taqi, brillante ministro dell'informazione, e il suo cadavere fu lasciato esposto come pubblico ammonimento davanti al Paese impietrito. Siaka Stevens, che Mohamed Forna nella sua lettera aveva deriso di essere ben altro che Kaunda e Nyerere, quattro anni prima aveva già fatto impiccare, con altri due ufficiali, il Brigadiere John Bangura, colui che aveva estromesso dal governo sir Albert, l'uomo forte dopo l'indipendenza del '61 che aveva concentrato nelle sue mani tutto il potere, per affidargli di fatto il potere nella sue mani in una rinata Repubblica democratica con libere elezioni. John Bangura, non potendo credere che l'uomo che lui aveva allevato politicamente lo stesse mandando al patibolo, pianse fino all'ultimo, implorando il perdono e rifiutandosi di salire sulla forca, per essere ammazzato a botte dai soldati pur di non cedere all'onta del cappio. E Mohamed non è mai stato dimenticato al punto che, anche oggi, è ricordato con grande ammirazione, e ci sono quelli come Conteh che parlano di lui come di uno che fu amico, amico del popolo.

Molte vicende hanno poi insanguinato il Paese, che solo dopo 11 anni di guerra interna nel 2002 ha trovato la pace di una democrazia fragile oggi sempre più divisa per linee regionali – il nord e il nord-est "poveri" contro il sud, il sud-est e la zona ovest, cioè la penisola di Freetown, più "ricchi". Dopo le prime elezioni dopo la fine del conflitto, di fatto favorito e imposto dagli inglesi, vinte nel 2002 dall'SLPP, un partito "interclassista" con un largo consenso tra i ceti medi e le popolazioni urbane e del sud, al governo dal 2008 c'è di nuovo l'APC, il partito con più vasti consensi al nord e tra i poveri. Tuttavia, proprio perché la "borghesia" e i commercianti, ancorché minoritari, sono sempre stati più a favore dell'SLPP, l'APC ha assunto un atteggiamento vendicativo, occupando il potere con crassa arroganza contro l'elitismo, la maggiore alfabetizzazione e capacità di gestione dell'economia e dell'amministrazione dell'apparato dell'SLPP. Con il risultato che chi ha una formazione scolastica e un livello di reddito appena maggiore della media guarda dall'alto in basso questi "barbari", incolti e incapaci, che sono stati votati dalla popolazione affamata ma sono destinati a fallire. Non prima, però, di avere arraffato e deviato consistenti risorse verso il nord e verso le loro popolazioni e gruppi tribali.

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La prima volta che sono stato qui, nel 2009, avevo già visto tutto questo. Bastava solo parlare con qualcuno con un minimo di istruzione, qualche funzionario di alto livello, per rendersi conto che i nuovi "barbari" erano andati al potere e senza ritegno stavano estromettendo tutte le persone, competenti o meno, che non appartenessero al loro enclave tribale e linguistico. Il fatto è che le differenze in termini di qualificazione ed esperienza tra il nord e il sud-ovest sono stridenti, considerando la popolazione creola di Freetown che da sempre ha rappresentato l'élite colta del Paese. Il mio compito, questa volta – aiutare il governo a stendere un Piano di sviluppo per la riduzione della povertà che metta in linea risultati attesi e risorse necessarie – è in realtà enorme, ma risponde alle logiche della "cooperazione internazionale" nella quale i Paesi donatori, su richiesta dei governi, provvedono a sostenerli su questo e quello. Il mio lavoro, in questo caso, è pagato dal Dipartimento per lo Sviluppo Internazionale (DFID) del Foreign Office britannico. Non c'è settore vitale del Governo ove non vi sia un consulente internazionale che in qualche modo aiuta, pagato da questa o quella organizzazione o agenzia, anche se poi quel po' di ipocrisia delle relazioni internazionali e il principio del "io ti dico come fare ma sei tu poi il responsabile", fanno sì che tanta assistenza non produce ciò che potrebbe e dovrebbe.

In queste mie noterelle non voglio comunque parlare del mio lavoro – tecnico, poco interessante –, ma solo riportare frammenti, note a margine, scarabocchi, come quei disegnini che si fanno quando ci si annoia ad una riunione e si comincia a fare schizzi, magari tratteggiando il volto grasso del Ministro di fronte, che socchiude gli occhi preda di un colpo di sonno. La signora Hawa Musa è la controparte che mi viene assegnata, una funzionaria del Ministero delle Finanze e dello Sviluppo che prende l'equivalente di 200 dollari al mese (per dare un'idea, una cena composta di una sola portata e una birra al ristorante costa 20 dollari, una ricarica telefonica ne costa 10 e dura una settimana). Mentre io vengo presentato a tutti come Pier (gli anglosassoni non concepiscono i doppi nomi, il secondo è sempre una lettera puntata, come George W. Bush), lei resta sempre la Signora Musa. Gli uomini si fanno chiamare per nome ma nelle riunioni vengono sempre nominati per cognome o titolo, se ce l'hanno, mentre io resto sempre e comunque Pier, senza cognome né titolo. Il superiore di Mrs Musa è un tale che quando mi vede ride sempre e mi dà pacche sulle spalle ma anche in un incontro a tre dopo un po' socchiude gli occhi per il sonno. Mrs Musa, una donna voluminosa ma elegante e non stupida, ha in antipatia tutti quei "colleghi" che con la scusa dei "progetti" finanziati dai donatori fanno i soldi e viaggiano su macchine con autista, come fossero dei consulenti. Il suo ufficio è al sesto piano di un edificio ministeriale senza ascensore, sporco e dove l'ultima pulizia e tinteggiatura delle pareti fu probabilmente fatta dagli inglesi che lo costruirono. E mi confessa che gli incontri che lei deve predisporre per me li organizza usando il suo telefonino, che lei deve ricaricare con i suoi soldini, che il governo non le passa nulla.

Quando con Mrs. Musa incontro il capo del suo capo e poi anche il capo del capo del suo capo, in un ufficio con finestre chiuse che danno su altri uffici, la televisione è accesa – stanno mostrando una partita del campionato inglese di calcio, non so chi siano, mi sembra il West Ham – e nessuno si preoccupa di spegnerla. I discorsi sono cerimoniosi, eppure c'è una sostanza che emerge chiara, bisogna solo non distrarsi tra la tv ad alto volume, i guardiani e inservienti che continuano ad entrare ed uscire dall'ufficio uno portando delle noccioline acquistate per il capo, l'altro portandogli una bottiglia di Coca Cola e l'ultimo per dirgli che lo ha chiamato qualcuno da casa. Con mia sorpresa, riesco anche a registrare il commento del vice del capo del capo che per tutta la riunione si accascia sul suo blocco note dormendo e si sveglia solo quando deve intervenire per dire qualcosa di molto sgradevole cui gli altri reagiscono con una sola impercettibile mossa del viso.

Nei vari gruppi di lavoro settoriali che incontro – dalla sanità all'igiene pubblica, dall'agricoltura alla pesca, dalle miniere al petrolio, dalla riforma del pubblico impiego alla protezione sociale ,e via dicendo – ognuno dice la sua, a ruota libera, pur rispettando rigorosamente le gerarchie, all'africana. Eppure ci sono persone sveglie, preparate, e le osservazioni sono acute e pertinenti. C'è Morlai, un ragazzo sveglio, avrà poco più di trent'anni, è il vice della sezione pagamenti internazionali della Banca Centrale. C'è Abu che continua a fare domande finché non ha capito davvero, e mi fa quasi irritare, ma alla fine è uno dei più produttivi, fa tre lavori in una volta, è l'interlocutore della Banca Mondiale per la spesa sociale, un osso durissimo. C'è la consulente kenyota che vuole che si metta il gender dovunque, e avrà ragione anche lei, ma alla fine nel documento il gender occupa tanto spazio quanto tutto il resto. E c'è una signora che sarà alta un metro e ottanta, è sciancata, porta sempre una vistosa roba africana, è sicuramente più che sessantenne, e parla parla parla. Doctor Nana Pratt, è il suo nome, chissà se ha qualche antenato sbarcato a Malta o a Venezia, zio di Hugo. È buffo, noto guardando la signora quando entra nelle riunioni, sempre con un'ora e mezzo di ritardo, che nonostante la stazza, l'incontenibile sproloquio e la prosopopea, ha persino qualcosa di sensuale nella carne flaccida che emana profumo di mango. Quello che manca, in queste riunioni confuse ma con una loro logica, non è solo un quadro d'insieme, un coordinamento, ma anche una leadership, come si dice, nel processo, non tanto nella politica. Ci sono fini esperti, raffinati disquisitori, acuti osservatori con esperienza alle spalle. Si potrebbe fare molto, penso sempre, se solo "la catena di comando" fosse al posto giusto. Ma questa è una bicicletta cui è caduta la catena e nessuno è disposto a rimetterla sulla ghiera...

Non ho contatto con altri consulenti, se non Tim, un "classico" ragazzo inglese, inglesissimo, probabilmente cresciuto con la bottiglia di latte sui gradini all'entrata di casa sua e che ha studiato filosofia politica all'Imperial College. Assomiglia a Steve McQueen, potrebbe essere suo figlio, penso, anche per come storce la bocca (ma parla con accento british), lo stesso capello, lo stesso sguardo. Tim però è serio, serissimo, almeno come lo era Steve McQueen in Blob, tutto compreso nel suo ruolo di advisor per conto di Tony Blair. Il convertito Blair, come è noto, una volta esaurito il mandato, dopo aver sfasciato il Labour britannico, fatto danni nel mondo accodandosi a Bush e lasciato la Gran Bretagna in braghe di tela, si è messo a fare conferenze milionarie e, forse ispirato direttamente da Dio, ha messo insieme una charity e una ONG che ha chiamato Africa Governance Initiative, detta AGI. Il suo Dio, però, non è comunista come quello di Helder Camara, è un Dio pratico, che bada al sodo, non alle idee. Loro, mi dice Tim, non fanno i consulenti tecnici, loro assistono i governi – anzi direttamente i presidenti o i ministri – nel processo. Insomma, sono delle super-segretarie che fanno continuamente dei briefing al Ministro delle Finanze (il più importante) o al Presidente su questo e quello. L'AGI non è vista bene dai Paesi donatori, che hanno le loro organizzazioni e agenzie e trattano ufficialmente con i governi, perché tutto quello che l'AGI fa lo negozia personalmente Tony Blair con i capi di governo dei Paesi africani nei suoi tour, senza naturalmente coordinarsi con nessuno. Non porta soldi, ma contatti, political clout. All'inizio, tuttavia, Tim mi ha aiutato, forte del fatto di trovarsi direttamente per metà nel gabinetto del Presidente e per l'altra metà in quello del Ministro, mentre io, dovendo sottostare alla logica dei rapporti formali, ero stato assegnato alla funzionaria di rango identificata dall'organigramma ministeriale. Perché purtroppo è vero che tanto più vicini si è alla stanza dei bottoni tanto più si può essere efficaci. E così ho potuto comunque incontrare e discutere con il Ministro e il suo gabinetto e con i capi dei vari Dipartimenti. Alla fine, conveniva anche a Tim che il suo ministro mi ascoltasse. Mrs Musa, al massimo, è riuscita a farmi incontrare con il Vice-Ministro per lo Sviluppo, un signore imponente che mi ha ascoltato con pazienza senza capire molto di quello che stavo dicendo. Invece il buon Ministro, Kaifala Marah, giovane tecnocrate promettente, era Capo di gabinetto del Presidente nella precedente legislatura ed è riuscito a farsi nominare Ministro del ministero più importante, mandando il suo predecessore agli Esteri – lui che era stato per vent'anni Direttore Generale del Tesoro – in un ruolo per lo più cerimoniale. Quando mi riceve sa già di cosa dobbiamo parlare, viene subito al punto, si alza dalla sua scrivania quando la segretaria mi fa entrare, mi fa accomodare sul divano di fronte e viene a sedersi sulla poltrona di fianco a me. Ha l'aria determinata, un bracciale d'oro al braccio destro che si intravvede sotto i polsini d'oro che gli serrano la manica e un orologio vistoso sul polso sinistro. Quando lo osservo parlare alle riunioni noto che punta lo sguardo, a turno, su ognuno dei presenti e quando mi vede non fa un cenno. Ha un'oratoria da giovane studente, ma ha imparato in fretta e vedo che mette i suoi colleghi ministri in fila.

Ho anche l'occasione di partecipare ad una riunione del Consiglio dei Ministri sul Piano. Un'interessante esperienza, per così dire, almeno sul piano sociologico. Ci sono signori che qualcuno definirebbe "con il pelo sullo stomaco" – ma ho sempre trovato quel modo di dire un po' stupido, e mi fa solo pensare a delle scimmie, non a stagionati uomini temprati dalla dura esperienza della vita e molto cinici, se quello è il senso – i quali il giovane Kaifala se lo mangerebbero. La politica è quella sottile arte della convinzione e del compromesso tra agende differenti. E Kaifala Marah guida già le danze. Il ministro dell'informazione cita Marx e Sant'Ignazio, il giovane ministro del lavoro sembra voglia farsi licenziare appena cominciato, mentre il Samora Kamara, l'ex ministro delle finanze, che è una vecchia volpe ora messa un po' in disparte, fa buon viso a cattiva sorte e guarda il giovane Kaifala crescere e non sa se gli ha già fatto le scarpe o gliele farà lui un giorno.

I miei referenti a DFID sono due: una giovane project manager, Jessica, che gestisce il mio contratto e si preoccupa che i terms of reference vengano portati a termine, e l'esperto del settore, Phil, un uomo che forse ha la mia età o qualche anno di più, è stato in 10 Paesi diversi almeno, capisce la situazione ma resta nel suo ufficio e non calpesta certo i corridoi sporchi dei ministeri e stringe certo poche mani di grigi funzionari e non deve certo ottenere da questi risposte tecniche precise. Che però è il bello di questo lavoro: doversi misurare con le persone come sono, lavorare con gli alti e i bassi livelli, con la "base", persino, come quelli del gruppo di lavoro sull'acqua o sul settore della pesca. Phil, cui non riesco a dare un'età, è bianco pallido, i capelli bianchi e radi, magro, appare molto provato e forse anche stanco, anche se un vago bagliore è rimasto nei suoi occhi. Era in Mozambico, nel suo incarico precedente, ma non ha registrato nessun incanto, per come me ne parla. La giovane project manager, una ragazza senza mento con gli occhi neri e vispi e l'aria antipatica, non mi saluta se mi incontra fuori dall'ufficio, a meno che non le vada incontro a stringerle la mano. Quando un giorno la incontro sulla spiaggia e noto che fa finta di non avermi visto non riesco a non pensare quanto siano lessi a volte gli inglesi. A metà della mia missione, comunque, la ragazza torna a Londra, una fast streamer come viene chiamata, dice Phil, sono i giovani che entrano in DFID e vengono assegnati a posti dove fanno carriera in fretta, e viene sostituita da un giovane garbato, Mike, che almeno non mi sta con il fiato sul collo, anche perché deve imparare velocemente a capire l'ambiente intorno. Mi racconta di Phil e mi dice sia un corridore che se può va a fare le maratone più importanti, come quella di New York o di Parigi (non sapevo che ve ne fosse una, ma immagino che ogni città oggi ne abbia una). Mike, che per tutta la riunione prende appunti ed è molto serio, quando sta per accompagnarci alla porta mi dice che la sera prima ha giocato a badmington con Imran, e che questi gli ha detto che mi conosce....

Imran è un giovane di origine bangladeshi che è qui con una fellowship dell'ODI. Non ha più di 27-28 anni, fa il suo lavoro con impegno, lo hanno messo a lavorare su alcuni settori del Piano di sviluppo, poverino, ed è tutto sulle sue spalle. Mi dice che lui ammira quelli che sono dei wandering consultants come me – interessante definizione, non mi sono mai visto così, ma questo è, forse tripsing da un posto all'altro, ma non wandering – ma che lui pensa comunque di fare domanda per entrare nel civil service inglese e che la sua ragazza, per il momento, vorrebbe starsene ferma. Anche se Imran ha passaporto inglese, è molto bangladeshi e mi dice subito che la Sierra Leone ha 6 milioni di abitanti e il Bangla Desh 160, quanto tutta l'Africa occidentale...: «I problemi qui sembrano enormi... ma se confrontati con quelli che abbiamo noi sono nulla».

Il capo dell'ufficio locale di DFID, Phil Evans, è un signore che ha probabilmente sui 65 anni – e a pensarci questa è forse la sua ultima sede prima della pensione –, ha la voce bassa, l'aria sicura dell'inglese navigato, una simpatia distaccata. Pochi giorni dopo che ero arrivato convoca un incontro, appena dopo esserci incontrati, in cui mi chiede di illustrare agli altri suoi colleghi la situazione. Sono i rappresentanti dei principali Paesi donatori, sembra una riunione tra amici affiatati, si chiamano per nome, ridono, si raccontano aneddoti, è la prima volta che si rivedono dopo Natale. Ato Brown, l'uomo della Banca Mondiale, fa le lodi del governo e quando io cerco di raccontare come ho trovato il Piano – che loro pensavano già quasi ultimato – quasi non mi vuole credere. Mia Suppe, che rappresenta UNDP, porta giustificazioni ma mi fa coraggio dicendo che "sono sulla strada buona" e che il documento che ho prodotto e fatto circolare è il gold standard. L'uomo della UE, che si presenta come Jean-Pierre, francesissimo, dice invece che la UE non metterà fuori un soldo finché il Piano non è pronto in un formato presentabile e che tutto questo è in-ac-cet-ta-bi-le. Mentre la vice chargé d'affaire irlandese, una donna in carne pallida come un uovo sodo, non dice una parola per tutto l'incontro, l'uomo della Banca Africana di Sviluppo, nella sua elegante veste africana, gioca un ruolo moderato senza dire molto e così Phil può concludere che il lavoro dovrà andare avanti come stabilito.

Nonostante le mie riserve espresse, è buffo pensare come l'interazione tra livello politico e relazioni personali funzioni qui, anche se forse è così ovunque. Quando vengo ricevuto dal Capo di gabinetto del Presidente – un uomo che avrà 40 anni al massimo, i capelli ricci e l'aria da ragazzo monello, con una polo e in jeans, anche lui con il televisore acceso – mi trovo di fronte uno che mi dice di aver studiato di tutto – economia, pianificazione, finanza, persino filosofia e teologia – e che "ha esperienza di tutto". In realtà Richard, come lo chiamano tutti, è un uomo molto ambizioso ma non troppo preparato – il collega Kaifala ex capo di gabinetto ora ministro lo sopravanza di molto sul piano tecnico e dell'acume politico – e ha una brama di soldi che fa dire in giro che è un corrotto. Quando era vice ministro del commercio e poi delle finanze lo avevo incontrato, nel 2009, per perorare la causa del presidente dell'Istituto Nazionale di Statistica che era stato prima "congelato" poi estromesso dal suo ruolo sulla base di accuse di presunte irregolarità di gestione. Questi, PhD in statistica, accademico, uno statistico di rilievo forse unico nel panorama nazionale, aveva il difetto di non essere del nord e in particolare della regione di Richard. Richard, viene dallo stesso villaggio del Presidente, di cui è cugino. È vero che in Inghilterra lui e Kaifala hanno frequentato lo stesso college ma Richard ha sempre avuto la passione per i soldi, gli affari e il potere, mentre Kaifala è stato sempre molto più furbo e sottile.

L'Ufficio del Presidente, che Marah ha contribuito a mettere in piedi arruolando una batteria di esperti Salonesi per lo più espatriati e richiamati al Paese natale per un lavoro congruamente remunerato, è comunque visto come un corpo estraneo dai ministeriali, che invece vengono assunti per concorsi e guadagnano briciole, e ora che Marah è ministro si è scatenata una "guerra" per il controllo del Piano, che Marah vuole sotto di sé. Tutti mi tirano per la giacca perché sarà sulla base delle mie raccomandazioni che i donatori decideranno o meno dove metter i loro soldini. Quelli dell'Ufficio del Presidente mi trattano con deferenza, a cominciare dal dottor Kamara, advisor su sanità, istruzione e agricoltura (!). Alla prima riunione, Kamara afferma che sostanzialmente il mio approccio è tutto sbagliato e non ho capito nulla. Io sono Pier, il consulente, lui invece è il dottor Kamara. Il fatto è che S.G. Kamara, dopo aver preso un PhD in qualche università negli Stati Uniti in psichiatria e pianificazione sanitaria era poi andato a finire per insegnare metodi quantitativi della ricerca sociale in un qualche college in Maryland. Essendo un amico del Presidente, dai tempi in cui erano entrambi studenti – questo mi ha raccontato --, quello lo ha un giorno invitato a tornare al Paese natio e così ha fatto, il buon S.G. Kamara, andando in pensione dopo vent'anni di insegnamento. Non so se è stato dopo aver visto il mio biglietto da visita o se ha guardato sulla mia pagina web, tant'è che l'ultima volta era tutto amichevole, come fossimo colleghi o old buddies, e mi ha portato in giro per il palazzo presidenziale alle quattro del pomeriggio.

Il palazzo, che un tempo era la sede del governatore della colonia, è un edificio un po' cadente, chiaramente vecchio e che richiederebbe una manutenzione a fondo. I tappeti rossi che nei piani nobili sono stesi da una stanza all'altra sono probabilmente ancora quelli dei tempi del governatore e così le porte, le maniglie, la mobilia, i lampadari e forse anche le lampadine. Entrare nel palazzo non è facile. Ci sono guardie armate che ti chiedono inquisitive chi vai a trovare, e vogliono conferma telefonica. Questo avviene in almeno due diversi cancelli e quasi vorrebbero una mancia per lasciarti passare. Il palazzo è grande, e l'interno dei cortili e del giardino intorno è popolato da guardiani, uscieri, inservienti, segretari e funzionari. Ci sono giovani che lavano le macchine, gente stravaccata sotto gli alberi in divisa, panni stesi dietro le cucine, bracieri accesi e odore di cibo e gasolio ovunque. Quando andai a trovare il capo di gabinetto, Richard, mi sequestrarono il telefono all'entrata, mi fecero salire la lunga rampa di scale elicoidale interna e mi fecero attendere in un'anticamera senza finestre, con un imponente tavolo al centro, le pareti foderate di legno perlinato come fosse una stube tirolese, anche se dipinte di nero, orribili fotografie ai muri e fiori finti impolverati in vasi di plastica ovunque. L'ala dove sono ora quelli della unità politica strategica – il pensatoio dell'Ufficio del Presidente – è un edificio ancora più modesto, con stanze basse e corridoi lunghi. Ma dopo aver amenamente conversato – S.G. Kamara non ha troppo piacere di entrare nei dettagli tecnici, che lascia al suo assistente innominato che gira sempre con il computer portatile aperto in braccio – decide di portarmi a visitare il palazzo e quindi nell'ala nobile, da cui si entra con facilità per una porta seminascosta nella parete. Questa volta non devo lasciare il mio telefono. Kamara entra e guarda se c'è Richard e, visto che non c'è, decide di portarmi direttamente dal Presidente. Quando scendiamo nelle stanze del Presidente sembra non ci sia nessuno, nemmeno una guardia, ma forse perché siamo con Kamara (c'è sempre il suo fido assistente Ibrahim che lo segue). E quando arriviamo al suo ufficio e Kamara bussa, una voce dice di entrare, e il Presidente è lì, davanti al suo computer che guarda come un oggetto estraneo. Vedo con la coda dell'occhio che è aperto su Google. Kamara, con grande deferenza, mi presenta e il presidente annuisce, come se avesse già sentito parlare di me Phil Evans me lo aveva comunicato, infatti –. Sorride, ha l'aria dell'uomo pacifico e attempato, i capelli grigi e ricci, ma con lo sguardo attento. Mi chiede come va il lavoro, gli dico che va bene, che c'è molto da fare. Poi lui e Kamara si scambiano qualche battuta e trovo il modo di dire che avevo visto il Presidente, proprio il giorno prima, passare in auto sulla spiaggia verso il capo, fermarsi e venire acclamato dalla gente intorno, congratularsi con alcuni ragazzi con le stampelle, di quelli che giocano a calcio con una gamba sola. Lui ride, e dice che quei ragazzi sono bravissimi, bisogna solo vederli giocare per rendersi conto.

Quando vado a trovare l'uomo della Banca Mondiale, Ato, che mi aveva promesso i risultati dell'indagine sulla povertà, questi mi riceve, al quarto piano dell'edificio della Banca, in ciabatte e maglietta, in un incontro in cui sono presenti altri due personaggi di cui non intendo il nome né il ruolo e che bofonchiano qualcosa solo per confermare quello che dice Ato, annuendo con la testa. Da quello che Ato racconta, mi sembra che abbia idee tutte sue e il suo quadro del Paese e di quello che sta succedendo nel governo e con il Piano è davvero peculiare. E pensare che lui rappresenta la Bianca Mondiale, da cui dipendono un sacco dei soldini che verranno sborsati per 'sto Paese. Quando me ne sto per andare, Ato mi chiede che ora è e mi confessa che questa mattina non aveva sentito la sveglia, era uscito in fretta e si era dimenticato di cambiarsi e di mettersi le scarpe... Forse, lui che è un ghanese, se lo può permettere, penso, però ha un modo di fare che mi ricorda gli americani, ed è probabilmente a Washington DC ha appreso quella finta frendliness.

La visita alla sede della Delegazione della UE è invece altrettanto tipica dei "nostri" bravi funzionari eurocratici. La sede è in un vero e proprio bunker – un edificio costruito per farne appartamenti, mi dicono, ma sembra una fortezza – situato però in un posto bellissimo, sopra la foresta, in cima alle colline che danno sulla baia di Freetown. Tom, il funzionario che si occupa di governance e che segue il Piano, è un inglese dalle buone maniere, parla anche italiano – mi dice di essere laureato in lingue – ma è molto negativo e non mi aiuta per nulla, non mi fornisce nessuna informazione utile e sembra che abbia solo altro per la testa. Quando entra Jean-Pierre per un attimo nel suo ufficio, e mi saluta cordialmente ma parla in francese con il collega, sono già uscito dalla sua orbita e rimane solo da salutarsi.

A UNDP ci sono stato in più occasioni, anche se la Mia Suppe, a dire la verità, il primo appuntamento di lavoro me lo ha dato in un caffè lì vicino. Svedese di origini finniche, come ci tiene a sottolineare, è una donna a suo modo avvenente, nonostante il vistoso strabismo, l'accento gutturalissimo e una spiccata verve autoritaria. Ascolta e ha le sue opinioni, parla di tutti i ministri e del Presidente come se fossero camerati con cui gioca a carte la sera e tende un po' al gossip. Ma UNDP, per qualche strana ragione che non mi è mai stata troppo chiara, trova sempre il modo di piazzarsi al centro della scena, negoziando tra donatori – da cui dipende per i suoi fondi – e i governi che intende assistere. Il secondo meeting, per discutere della bozza del Piano che il governo ha fatto circolare, Mia lo conviene al ristorante di Alex, il "pub irlandese" dove tutto costa il doppio e ci sono solo internazionali, invitando anche Herbert McCleod che nonostante il nome è un salonese puro-sangue, per così dire, creolo, che ha studiato ed è stato funzionario di UNDP a New York e in giro per l'Africa per più di vent'anni.

Herbert è un loose cannon, "un cannone che spara a casaccio", come si dice, un personaggio interessante e imprevedibile, ma imbevuto di quel "modo d'essere" appreso ad UNDP. Sembra che quando si entri in una delle organizzazioni delle UN avvenga una mutazione antropologica, per così dire. La prima volta che lo incontro, con Mrs Musa, è come se si aprisse con me. Mi fa discorsi molto ragionevoli sullo sviluppo "come potrebbe essere" e del pericolo che l'élite finisca per scippare tutte le risorse e il Paese si ritrovi povero come prima, ora che anche il petrolio si è aggiunto ai già considerevoli giacimenti di ferro, rame e diamanti. Mi dice che il suo Piano non è piaciuto al Presidente – "non mi ascolta più", mi confessa sottovoce – ma che lui insisterà finché non lo licenzia formalmente. Lui fa parte di quella pomposamente chiamata strategic policy unit che poi non è altro che il gabinetto del Presidente e che dovrebbe fare la consulenza tecnica. Ci sono esimi uomini ritornati dall'estero, assieme a giovani che portano loro le borse. Quella sera, con Mia, Herbert gioca le due parti del funzionario di governo e dell'ex UNDP e la discussione resta molto istituzionale. Ma non porta da nessuna parte. Nei giorni seguenti, quando riesco finalmente a parlare con qualcuno dei "tecnici" di UNDP, la mia attesa di un qualche "input" di significato da quel versante viene definitivamente delusa. L'uomo che si occupa di "civil service reform" ne sa, non c'è dubbio, ma non c'entra nulla. UNDP ha anche assunto un lituano, biondo, con l'aria allegra da imbecille, che nel ruolo di donor coordinator è ancora più improbabile e davvero non si capisce cosa ci faccia lì, cosa ci faccia a Freetown e come mai sia stato scelto per stare lì in quel ruolo. Un giorno Herbert mi invita a cena a casa sua, per poi disdire mezz'ora prima. Ma il giorno dopo insiste per portarmi a pranzo nel ristorante sotto al ministero, dove mi presenta la titolare, che è poi la sorella di Kawusu, il capo dell'ufficio che segue i rapporti con i donatori. Herbert insiste a parlare italiano con me, è stato in Italia ormai venticinque anni fa, a studiare, aveva una morosa, poi ha fatto la carriera nelle organizzazioni internazionali. Di cui ha preso molti difetti. È intelligente, ma ha preso quella forma mentis che fa tanti danni. Ma almeno si rende conto degli altri danni, più grandi, che fanno i soldi e il capitalismo selvaggio controfirmato dalla Banca Mondiale.

Le mie prime riunioni erano state un evento. Era bello averli tutti intorno, funzionari, ministri, ascoltare, imparare, tutti apparivano disponibili a cominciare ex novo e a mettersi d'impegno. Ma poi è venuto il duro lavoro quotidiano, l'esigenza di mettere in fila progetti, risultati attesi, risorse disponibili. Dopo gli entusiasmi iniziali, miei come di tutti, per il fresco approccio che ho portato, su richiesta, per il mio ruolo di "catalizzatore" e animatore, gradualmente si sono dileguati tutti, però, e il lavoro è rimasto nelle mie mani e non mi resta che convincere il mio project manager, e Phil, quando tornerà dal suo leave of absence per il periodo pasquale, che qui le cose vanno molto, molto, ma molto a rilento. This is Africa, my dear!

§ –

Sono tornato da Franco, una domenica sera che volevo passare più in silenzio, lontano dalla continua kermesse notturna che nei fine settimana tiene viva la spiaggia vicino al mio albergo. Lo chiamo nel pomeriggio, mi riconosce, «il professore di Bologna, certo!», mi dice con quell'accento modenese. Mi chiede cosa voglio mangiare, mi dice che non ha molto, ma un'aragosta ce l'ha, pescata nel pomeriggio. C'è traffico anche se è domenica, matrimoni che fanno il corteo occupando la strada, bande scolastiche che marciano cantando, anche se sono solo venti chilometri ci mettiamo un'ora a uscire dalla città. Quando arrivo sono le cinque e mezza, è nuvoloso, c'è vento, mi danno una camera che dà sul mare, la più bella. Più tardi mi accorgo che sono l'unico cliente, in realtà. Nel suo bel resort ci sono ancora avventori al ristorante ma nessuno per passare la notte. La camera e tutto l'arredo del posto hanno un che di italiano, anche se il legno è africano, scuro e poco lavorato. Franco non c'è, volevo fare delle chiacchiere, Fabrizio lo vedo appena, e però c'è Florence, la moglie di Franco, una Salonese dall'aria simpatica e semplice, che non mi dà troppa confidenza. Quando sto per finire la cena, due aragoste che mangio accompagnandole con del vino bianco sudafricano – troppo dolce, con poca acidità – arriva Franco, gli faccio un gesto, si mette a sedere. Gli chiedo di questo e quello, è distratto, forse anche stanco, non beve, dice che sono anni che non beve da quando ha avuto calcoli renali. Sono l'unico consumatore seduto al tavolo nel grande patio, è piacevole. Ad un certo punto arriva Florence che gli dice qualcosa, ha chiamato Fabrizio dal Numero 2, il fiume poco più in là, e ha bisogno. Non sembra preoccupata, però Franco prende su e va subito via, non senza farmi una grappa – che la cameriera non sa cosa sia – che lui evidentemente tiene in un armadietto, non per tutti. Una Nonino di quelle che non ci si sbaglia mai. Non ho bevuto che metà bottiglia, ma quel bicchiere di grappa riempito a mezzo come fosse acqua è troppo. In camera, ascolto il rumore del mare, le finestre hanno le zanzariere e si intravede la fioca luce che viene da fuori, ma è caldo, finisco la mia fumata di pipa che il bicchiere è ancora a metà e già cado dal sonno.

La notte passa lenta ma al mattino le nuvole se ne sono già andate, e sarà un'altra calda giornata tropicale. Franco è già alzato, seduto, con un libro che sembra quello dei conti, sui cui annota numeri e dettagli nelle colonne. Ho quasi timore a chiedergli se per caso sia successo qualcosa a Fabrizio, ma lo vedo tranquillo e loquace, al che capisco che non è stato nulla. Mentre ci portano a poco a poco la colazione, il vecchio indiano comincia a raccontare. Di quando era ragazzo a Marzaglia e andava a fare il bagno nel fiume, lui e altri suoi tre amici, andavano su fino al passo dell'Uccellina e poi venivano giù con la corrente fino a Rubiera. Io Marzaglia la conosco, è un paesino dopo Modena, sul fiume che segna il confine con Reggio. Conobbi una ragazza che era di là, mi piaceva, l'andai a trovare una volta sola a casa sua, per questo conosco il paese e quando glielo racconto è contento perché nessuno sa mai dov'è Marzaglia. Mi dice che dei suoi tre amici uno fa l'ingegnere ed è andato in pensione, l'altro deve essere morto perché «gli è morta la moglie qualche anno fa a 75 anni, lui ne aveva dieci più di me, credo che sia già morto», il terzo non sa che fine abbia fatto e un po' gli dispiace. Quando gli chiedo che cosa ha fatto lui, nella vita, mi dice che faceva il saldatore alla Ferrari, quando ancora la Ferrari aveva delle officine sul vialone dopo lo stadio di Modena, mi dice, come se conoscessi la città e mi ricordassi di questi capannoni grandi, mi fa anche i nomi di chi erano i capi reparto, i direttori, di Enzo Ferrari, lui aveva il compito preciso di dover saldare le carrozzerie, lo aveva fatto assumere uno che era poi amico di uno dei tre con cui andava a nuotare. Il ricordo mi fa tornare alla mente il film di Bertolucci, Prima della rivoluzione, e di quando vanno a nuotare del fiume. Poi mi viene in mente che uno dei ragazzi muore annegato, mi sembra, e penso a Pasolini e a Antonioni e ai loro morti annegati nel fiume e anche ad Emilia Villesi, quella di cui parla la canzone di Roversi cantata da Dalla. Però, Franco, nuotando nel fiume, ha imparato a nuotare davvero e a fare il pescatore subacqueo.

Parliamo del suo "resort", gli dico che mi sembra abbia uno stile italiano. Lo ha disegnato lui perché, in realtà, mi dice: «io sono un muratore, ho sempre costruito, strade più che altro, ma anche case». Il disegno lo ha fatto lui anche se il vero e proprio disegno lo ha fatto fare a suo figlio grande, che ha una ditta di arredamenti a Carpi, quando ha dovuto chiedere la licenza gli ha fatto preparare il disegno, ma l'albergo era già costruito. Gli chiedo se i soffitti di legno li abbia fatti lui e quelli, mi dice, li ha fatti un suo amico italiano, che è stato qui cinquant'anni, era qui che c'erano ancora gli inglesi, ed è tornato in Italia verso il '99 o il 2000, quando non si sapeva bene la guerra come sarebbe andata a finire, che era diventata cattiva. Così, mi dice che in realtà lui ha tre figli, un maschio che vive a Carpi, una figlia che vive a Tenerife e Fabrizio. I primi due della prima moglie, l'ultimo figlio di Florence, cui ha intitolato il resort e che vive con lui. Mi racconta di Fabrizio, che lo mandò alla scuola francese, ma che lo bocciarono in prima elementare, poi lo mandò in Italia, dal suo figlio grande, a studiare a Carpi e poi a Tenerife dall'altra sua figlia, dove però la scuola era in spagnolo. Insomma, quando Fabrizio tornò a Freetown e lo iscrisse alla scuola internazionale, inglese, non sapeva bene l'inglese, e lo bocciarono ancora... A quel punto, Franco mi guarda e come se non volesse nascondermi una verità scomoda, mi dice che ha altri due figli, che la loro mamma vive a Godarich, sotto Freetown, e che lui provvede a loro. È proprio diventato un vero africano.

Arriva Conteh e quando si avvicina sotto il patio gli presento Franco e lui mi dice che lo conosce... «Of course, sir, he was a very good friend of Mister Paolo, I know him». Franco lo conosce perché Conteh era l'autista di Paolo, un altro costruttore, amico di Franco, che aveva fatto costruire l'Hotel Cape Sierra, vicino a dove sto io. Quelle rovine vicino al mio albergo sono del Cape Sierra, non dell'Holiday Inn. «Lì c'era il Cape Sierra», dice Franco, «Paolo ci spese 3 o 4 milioni di dollari. Poi il governo, questo governo, gli disse, se investi venti milioni di dollari ti diamo la licenza per 30 anni, altrimenti niente licenza. Paolo ha detto «e chi mi garantisce...?». Allora, niente licenza, e lo hanno buttato giù, demolito!». Paolo era poi andato in Gambia, dove aveva chiesto a Franco di andare, e poi in Libia, dove aveva fatto dei contratti con Gheddafi, lo aveva chiamato dicendo che c'erano dei soldi, ma Franco ha preferito restare qui. «Paolo era a good man», mi dice Conteh. C'era una ventina di autisti che lavorava al Cape Sierra e quando Paolo ha dovuto chiudere ha dato soldi a tutti. Loro hanno messo insieme la "associazione degli autisti d'albergo" e Conteh è stato nominato presidente. Ora sono più di duecento, una specie di sindacato degli autisti, si danno una mano, se uno riceve una richiesta ed è occupato chiama il collega. Il vecchio Conteh, che uomo navigato, «sette vite come un gatto», gli faccio prendendolo in giro.

Prima di partire al mattino, Franco è quasi triste che me ne vada. Ma è abituato: tutti passano, nessuno resta sul delta del Number Two con Franco Miari di Modena. Siamo in piedi che ci diamo la mano e continua a parlare e mi racconta la storia di Emilio Negro e delle due volte che gli ha salvato la vita. Lui e la sua mania di fare apnea. Una volta, a Lipari, si tuffa, alla fine di una serie di perlustrazioni, gli dice "se non torno su in 30 secondi vienimi a prendere". E così successe, Emilio riuscì a districarlo da una roccia che, là sotto, gli impediva di risalire. La seconda volta fu dieci anni dopo, in Grecia, mi sembra. Stessa scena, ma Franco stava quasi per rimetterci le penne, andò pure in coma, ma alla fine si salvò. Mi abbraccia: «ti aspetto qui, allora, alla prossima, professore».

La sera prima del tramonto cammino sulla spiaggia. Il tempo sta cambiando, c'è vento, sta arrivando la stagione delle piogge. L'altro giorno la spiaggia era linda, grigia, una piatta lungo striscia di sabbia. L'aveva lavata la pioggia, non sembrava esserci una bottiglia, un rifiuto che fosse uno. Ho camminato a lungo, chiedendomi cosa fosse che rende il mare sempre diverso. Non è mai uguale a se stesso e non è mai uguale da un posto all'altro. Odorava di salsedine, l'oceano, e il suo suono era rumoroso e suadente. Le onde sembrava accavallarsi fin sulla riva e il sole era pallido, una palla larga di un giallo metallico, stesa sull'orizzonte. Il suo riflesso appariva argenteo sulla schiuma e il piatto fondo sabbioso della spiaggia sul quale la pellicola d'acqua stendeva un velo specchiato.

Nelle acque al largo il movimento si percepiva appena. Ad un certo punto, ho visto qualcosa galleggiare e il mio sguardo si è fissato su quella cosa scura, inanimata, che lentamente si avvicinava a riva. Quando si è fatta più vicina ho riconosciuto un tronco d'albero, o quanto meno un resto apparentemente informe di legno. Sembrava di nessun interesse, quando l'ho visto posarsi di lato, sulla spiaggia, e prendere come le sembianze di un volto. Ho pensato potesse essere una scultura lignea, ma a ben guardare non aveva nulla di artificiale, di fatto a mano. Non era incisa, né lavorata in alcun modo, eppure più la osservavo più mi pareva un'enorme profilo di donna africana, con le labbra carnose e i capelli folti e nodosi. Sembrava avesse persino un orecchino, gli occhi socchiusi, e un'espressione triste. Forse era il mio particolare punto di vista e mi dispiaceva quasi muovermi da lì per poi rendermi conto che da un'altra visuale avrebbe ripreso le fattezze del semplice pezzo di legno informe, lavorato dal mare che lo avrebbe lentamente ridotto in pezzi. Ma il profilo di donna ristette, fermo sulla riva, pian piano asciugandosi come dopo un lungo naufragio. Ho sempre trovato piena di realismo, ancorché forse improbabile ma nient'affatto magica l'idea che un pezzo di legno possa apparire con sembianze umane, come quando a Geppetto si intenerisce il cuore e vorrebbe che il suo burattino fosse quel figlio che non ha mai avuto. Ma è ancora più improbabile l'idea che sia la "natura", e cioè il caso e l'accumularsi di eventi occasionali, a dare ad un pezzo di legno nitide sembianze umane. Potrebbe essere stato in questo modo che una popolazione arcaica ha cominciato a venerare una divinità venuta dal mare, arrivata come un semplice tronco naufrago per farsi accogliere da una gente benevolente e desiderosa di dare un senso ad un evento unico. Ma, certo, il mare può portare altro. Come quella volta sulla spiaggia di Xai Xai, sull'Oceano Indiano, in Mozambico, il cielo era scuro e anche il mare era scuro e mosso, e ogni volta che mi trovo di fronte all'oceano pensoso mi torna alla mente, sulla spiaggia là in fondo stava il corpo inerte di un giovane, ancora vestito, che le onde bagnavano muovendolo appena. Era senza vita, ormai, e pensammo o forse qualcuno ci disse qualcosa che era stata la sera prima, nella baldoria e nell'ubriacatura della festa, che l'uomo era stato travolto dalle onde, forse per via di un malore, forse perché aveva battuto la testa. Il suo corpo giaceva lì, abbandonato, nessuno intorno ad occuparsi di lui, a chiedere di lui, uno come un altro che l'oceano aveva rigettato sull'Africa madre.

§ –

L'ultima sera Herbert mi ha invitato a cena. Nonostante il mio rapporto da ultimare, nonostante una certa mia disillusione nei suoi confronti – dopo averlo visto ripetutamente ed essermi confrontato con lui più volte senza riuscire a cavarne nulla di positivo e di costruttivo – insiste per avermi a cena. Lo chiamo più tardi con una scusa, per non andare, e mi dice che ha anche invitato altri ospiti che si aspettano di conoscermi. Ho già mandato il signor Conteh a casa e quando lo chiamo mi dice che la linea è disturbata. Sono già rassegnato a prendere un taxi quando un uomo di presenta davanti alla mia camera, mentre io sono lì, ancora a torso nudo, sudando, davanti al computer – sono appena le quattro del pomeriggio –. Dice che lo manda il signor Conteh e che lui è a mia disposizione per tutta la sera. Ha l'aria seria, Mohamed, yessah, guida un auto enorme, yessah, e sarà da me alle otto, yessah yessah. Anche Conteh risponde sempre yessah, mi chiama sempre mistah ma Mohamed è addirittura riverente, quasi fa anche un cenno con il capo. Quando è ora, Herbert mi ha dato indicazioni confuse, ho capito che devo andare in un luogo chiamato Quarry vicino a Johnson crossing. Per la strada, ancora ci sono file ai distributori di benzina e sembra quasi che siano aumentate. Mohamed non fa che scuotere la testa e così come Conteh ripete continuamente: "visto? Sono in fila per fare benzina!". Non si dà pace, come non si dava pace Conteh. E il paese è in ginocchio, in effetti. Senza benzina non vanno non solo auto e trasporti ma anche i generatori di elettricità, insomma smette di andare tutto. Ai distributori, ora, non ci sono solo auto e camion ma soprattutto gente armata di taniche da riempire. Capannelli, assembramenti, grida e voci, attorno ai distributori si sta agitando la pancia del paese.

Quando arriviamo nei pressi dell'abitazione di Herbert, lo chiamo per farlo parlare con Mohamed, il quale non capisce. La cosa chiara è che deve prendere a destra su per una strada di terra, tutta sassi e gibbosa. Chiede ma nessuno sa di questo Herbert. Richiamo e allora capisco: intendeva una t junction, non Johnson. Ma c'è un gigantesco camion, un lorry come dice Mohamed, che, piantato in mezzo alla carrettiera tra i due muri delle case impedisce il passaggio, e lotta con le marce cercando di uscire a marcia indietro. Allora Herbert mi fa mandare una delle sue guardie e pazientemente aspettiamo, guardando da lontano i fumi del diesel impestare l'aria.

Quando arrivo a casa sua, Herbert mi presenta Emil, un signore alto con le orecchie grandi e gli occhi spalancati, che "lavora nel settore privato". Tutta la sera parlerà del suo lavoro di contabile per un'azienda che non riesco a capire cosa faccia, dicendo di alzarsi alle quattro e mezza ogni giorno e andare a letto alle nove e mezza dopo una doccia fredda. Non è sposato, non ha figli ma tiene l'auricolare acceso, e ogni tanto risponde ad una chiamata anche mentre sta parlando con noi. Più tardi arriva anche Emy, vestita in arancione sgargiante, elegante, un'africana più alta e sicuramente più pesante di me, anche se non grassa, i capelli cortissimi. Ha l'aria dolce ma decisa, abbassa gli occhi quando parla, c'è una modestia nel suo atteggiamento che lascia colpiti, come non si azzardasse a dire quello che sta per dire. Eppure è lei quella che dice le cose più sensate, con Herbert che scherza di frequente, per prenderla amichevolmente in giro, lui che è l'ospite, e Emil che con la sua aria allampanata sta al gioco di Herbert. Sono amici d'infanzia, Emil è stato anche lui all'estero, per studiare, è creolo, e quando è tornato ha passato la guerra e tutto il resto. E ora vorrebbe darsi alla politica, per il bene del paese, contro questi politici corrotti. Ha appoggiato un movement for democracy guidato da una donna, ex ministro della sanità, che era poi andata a dirigere un'agenzia delle nazioni unite e alle ultime elezioni ha deciso di tornare e candidarsi alla Presidenza. Ma il movimento ha perso lo zero virgola uno per cento, come lo prende in giro Herbert, e lui è contento lo stesso. Emy, invece, anche lei creola, è una nutrizionista, ha studiato in Inghilterra ed è funzionaria del ministero della sanità. Domani, ci dice Herbert, Emy andrà a ricevere un premio internazionale assegnatole per il lavoro che lei e il suo team fanno in Sierra Leone. La cerimonia sarà a Makeni, ed è così che Herbert ci dice del posto dove lui è nato. Ad un certo punto Emy, a bassa voce, chiama qualcuno e poi ci dice che ha voluto convincere suo figlio a venire con lei l'indomani a ritirare il premio. Ha dieci anni ed è probabilmente contento della mamma anche senza capirci nulla.

Herbert ha una casa ben arredata, due inservienti che servono la cena, musica, aria condizionata, molte suppellettili, statue e statuette, quadri, nulla che però mi colpisca e che, anzi, non sfugga un certo gusto un po' commerciale. Ma suona della bella musica, congolese, dice, e ci offre del buon cognac alla fine. Tutta la sera, continua a farmi domande, non di lavoro, ma su "cosa ne penso della Sierra Leone", quali sono le mie impressioni. È preoccupato, lo sono tutti, perché quello che hanno alle spalle può ripresentarsi da un giorno all'altro. I fantasmi di Mohamed Forna, John Bangura e altri good men uccisi per ingordigia di potere e cattiveria aleggiano, nei racconti dei Emy, Emil ed Herbert ci sono continui riferimenti che non smettono di riproporre una domanda: succederà di nuovo?

This is Africa, my dear.

Freetown, Sierra Leone