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12 Dicembre 2013
[in questo giorno, nel 1969, una bomba esplodeva alla Banca
dell'Agricoltura in Piazza Fontana a Milano, provocando 17 morti e 88
feriti]
Cammino sul Ponte Latino che attraversa il fiume Miljacka a Sarajevo. Stormi d'uccelli volano rapidi sopra i tetti e tra i minareti, come a liberarsi dal freddo che gela l'aria serena, tagliata appena dal sole. Guardo sotto e vedo scorrere l'acqua calma e scura mentre procedo sull'antico acciottolato avvicinandomi all'incrocio. Dicono sia il ponte più antico di Sarajevo, c'era già nel 1513, quando intorno il serraglio del Beg era ancora ridotto. Cinquecento anni fa. È qui, all'incrocio tra il lungofiume e il ponte, che il 28 giugno del 1914, 99 anni (e mezzo) fa, Gavrilo Princip sparò all'arciduca Franz Ferdinand e a sua moglie Sophie, uccidendoli. Quasi all'angolo, ora c'è una lapide sul muro di quello che era il caffè-pasticceria di Moritz Schiller. Non è più la lapide che è stata qui per anni, in cirillico, ma una pietra incisa in bosniaco-croato e in inglese, che dice che qui Gavrilo Princip assassinò "l'erede al trono austro-ungarico Franz Ferdinand e sua moglie Sophie".
La storia è un macigno sulla vita degli uomini, che non si sposta, che non passa. Qui – a giugno saranno cent'anni – fu sparato il proiettile che diede inizio alla "grande guerra", la grande carneficina. Quella in cui anche io, come milioni, ci ho perso due bisnonni. E se penso a loro penso che i grandi eventi sono forse sempre il comporsi di tanti avvenimenti piccoli. E i grandi tragici eventi, a volte, nascono da fatti grotteschi nella loro piccolezza. Quell'enorme successione di invasioni di eserciti, distruzioni, uccisioni di milioni di soldati e uomini e donne e bambini cominciò qui, quel giorno in cui il piccolo serbo, un diciannovenne basso di statura, fanatico sfegatato che voleva fare un "gesto importante" per la causa serba ed essere finalmente preso in considerazione dai suoi compagni, sparò alla coppia regale che gli si trovò di fronte. E la storia di quel giorno, e di quel luogo è quasi rivelatrice di come la storia si compone di tanti fatti modesti, episodi meschini che finiscono a volte per ammontare a grandi tragedie. Seguo gli uccelli di passaggio sopra il Ponte Latino, non devono essere molto diversi da quelli che svolazzarono quel giorno sul corteo di auto di Franz Ferdinand e Sophie prima che si aprisse per loro il destino.
La visita dell'arciduca e della sua consorte era stata voluta da tempo e l'occasione si presentò per l'inaugurazione del Museo Nazionale. Un particolare tenero – che rivela che Franz Ferdinand non era l'erede al trono, come afferma la lapide – è che l'imperatore Franz Josef aveva consentito al matrimonio del nipote con Sophie, una duchessa boema che, come tale, a corte era considerata una plebea, a condizione che i suoi eredi non ascendessero al trono. L'atto formale di giuramento avvenne, tra l'altro, tre giorni prima del loro matrimonio, il 28 giugno del 1900 (quale tragico anniversario). Franz Ferdinand, quindi, non poteva farsi accompagnare dalla consorte nelle occasioni pubbliche, se non quando queste avessero un carattere militare: ed è per questo che volle partecipare alla inaugurazione a Sarajevo, con la moglie a fianco, in quanto era stato formalmente inviato dall'imperatore in visita all'esercito in Bosnia. Ma gli Austriaci e il loro governatore Potiorek, di origini croate, che poco evidentemente conoscevano quelle terre, sbagliarono a scegliere il 28 giugno come data per quella visita. Il giorno di di San Vito (Vitovdan, il 14 giugno nel calendario giuliano ancora in uso nella chiesa cristiana ortodossa) è infatti una data importante per i serbi ortodossi. In quella data, in occasione della battaglia del Campo di Kosovo del 1389, nella quale i Serbi del principe Lazar furono comunque sconfitti dagli Ottomani guidati dal sultano Murad, un cavaliere serbo fu capace di farsi portare di fronte al sultano e di infilzarlo con la sua daga.
Gli Austriaci, che nel 1878 in seguito al congresso di Berlino avevano ottenuto mandato di occupare e amministrare la Provincia di Bosnia pur rimanendo questa sotto la formale sovranità ottomana, avevano inizialmente trovato fiera resistenza da parte delle popolazioni locali, soprattutto tra i musulmani, timorosi di perdere così i diritti acquisiti sotto il dominio turco. La resistenza aveva anche avuto risvolti violenti e i suoi capi erano poi stati passati per le armi. Nei trent'anni successivi, quindi, anche per placare i sentimenti anti-austraci, la Bosnia e Sarajevo avevano assistito a molti cambiamenti introdotti dagli Austriaci nell'urbanistica, nell'architettura e nell'organizzazione civile, con l'apertura dell'Ufficio Postale e del Teatro Nazionale, la costruzione della linea del tram, della ferrovia e della grande stazione ferroviaria e la maestosa Biblioteca. Quest'ultima era stata osteggiata dalla popolazione perché cambiava vistosamente il paesaggio urbano della città, dove fino ad allora non erano mai stati costruiti edifici di tale grandezza.
La vicina Serbia, emersa come stato indipendente dopo una lunga lotta e riconosciuta alla conferenza di Berlino nel 1878 e che sotto il regno di Alexander Obrenovic aveva accettato più o meno pacificamente lo status quo ai suoi confini, all'uccisione e sostituzione del re con Petar Karagiorgevic nel 1903, ricominciò a covare spinte nazionalistiche di rivincita, reclamando i suoi antichi confini del XIV secolo sull'intera regione. Da parte sua, l'Austria-Ungheria, il 6 ottobre 1908, il giorno dopo la dichiarazione di indipendenza della Bulgaria – il cui status era stato al centro della conferenza di Berlino del 1878 – aveva deciso di annettere unilateralmente la Bosnia Erzegovina. A questo seguirono le due guerre balcaniche del 1912 e del 1913 in cui la Serbia prese possesso della Macedonia e del Kosovo, strappandoli ai Turchi. Questi successi non fecero che ravvivare i sentimenti nazionalistici delle popolazioni serbe in Bosnia, per lo più formate da masse contadine che volevano liberarsi dei vincoli feudali di gestione della terra che comunque prevalevano ancora in tutta la regione. Vari furono i tentativi di rivolta e gli attentati anti-austriaci, uno dei quali fu anche diretto a Franz Josef nel 1911 e il più famoso dei quali rimase quello messo in atto da Bogdan Zerajic, un ventiduenne che nel 1910 sparò cinque colpi di pistola al temibile Marijan Varesanin, un generale noto per il suo pugno di ferro con cui aveva sedato nel sangue varie rivolte contadine. I colpi non andarono a segno e l'intrepido Bogdan si sparò un colpo in testa sul luogo. Gavrilo Princip, diciassettenne, passerà ore sulla tomba di Bogdan, giurando vendetta.
La Mano nera, un'organizzazione nazionalistica serba che aveva fomentato un movimento irredentista clandestino, era presente in Bosnia, sotto il coordinamento di Danilo Ilic, che guidava il movimento della Giovane Bosnia. Il capo della Mano nera era il temibile Dragutin Dimitrievic, detto Apis, un uomo dei servizi segreti serbi, colui il quale aveva organizzato il colpo del 1903 contro la guardia di Alexander e guidato la feroce uccisione del sovrano e della moglie Draga, squartati a pezzi e gettati dalla finestra della torre del loro castello. Vari membri del gruppo, che in un incontro dell'organizzazione a Tolosa, in Francia, decisero di agire per ravvivare il movimento rivoluzionario anti-austriaco in Bosnia, complottarono così un attentato prima contro il governatore austriaco Potiorek e poi contro l'arciduca Franz Ferdinand. Un gruppo di giovani serbi bosniaci, ma residenti a Belgrado, fu scelto per la missione che coinvolse una ventina di cospiratori. Il trasporto degli uomini e delle armi attraverso i confini non fu facile, ma alla fine ebbe successo. Il 27 giugno i cospiratori scelti per l'attentato si trovarono a Sarajevo, alcuni conoscendosi nell'occasione. Gavrilo ritrova l'amico Danilo Ilic che, la mattina del 28, fa disporre sei di quegli uomini lungo il tragitto che il corteo principesco avrebbe percorso, annunciato sui giornali del giorno prima.
Tra due ali di folla, un corteo di sei auto coprì il primo pezzo del tragitto annunciato dalla stazione alle caserme. Di fronte al Cafe Mostar, il primo dei sei sicari non trovò il modo di lanciare la bomba che aveva con sé. Anche il secondo sicario, armato di pistola, non riuscì ad agire. Quasi di fronte al Ponte Ciumurja, finalmente, il terzo sicario fu in grado di lanciare una bomba a tempo che, tuttavia, rimbalzò dalla cappotta aperta dell'auto dell'arciduca finendo sotto l'auto che seguiva ed esplodendovi sotto. L'esplosione causò il ferimento di una ventina di persone e una grande confusione tra la folla. L'attentatore, come stabilito, ingerì allora una pillola di veleno e si gettò nel fiume: il goffo tentativo di suicidio, tuttavia, fallì, perché le pillole si dimostrarono inefficaci (e forse erano scadute) e il livello dell'acqua nel fiume era troppo basso per consentire l'annegamento. Egli fu così preso immediatamente, battuto dalla polizia e dalla folla.
Giunto
al municipio come da programma, Franz Ferdinand lamentò con il
sindaco che il suo corteo era stato oggetto di "lanci di bombe",
e anche questa appare quasi grottesca come sottolineatura. Il sindaco
dovette interrompere il suo saluto per lo sbotto dell'arciduca che,
secondo quanto raccontano le cronache, fu calmato dalla moglie. A
Franz Ferdinand toccò di leggere inorridito il suo discorso da un
foglio macchiato di sangue – era rimasto nell'auto investita
dall'esplosione – e parlare a braccio perché il foglio era troppo
imbrattato di fronte alla folla comunque festosa. Il programma della
visita, a quel punto, dovette cambiare. L'arciduca, più di ogni
altra cosa, voleva sincerarsi delle condizioni dei feriti. A Sophie
fu chiesto di non esporsi. Il governatore, però, minimizzò
affermando che "Sarajevo non è mica piena di assassini..."
e poi ella era decisa nel seguire il marito. Franz Ferdinand e Sophie
lasciarono così il Municipio per far
visita ai feriti all'ospedale tra i quali vi era Erich von Merrizzi,
l'assistente del governatore, che aveva con sé i piani della visita
con i quali aveva istruito il guidatore dell'auto dell'arciduca, il
signor Leopold Lojka. Questi, poverino, nel lasciare il Municipio,
non poté quindi essere informato da alcuno che il programma della
visita era mutato, e darà così il suo involontario contributo alla
morte dell'arciduca. Il corteo si recò infatti all'ospedale –
nella parte orientale della città – passando nuovamente per il
lungofiume. Al ritorno, il signor Lojka pensò bene di prendere a
destra all'altezza del Ponte Latino, per imboccare la via Franz
Josef, all'angolo del Cafè di Moritz Schiller. Il caso volle che
Gavrilo Princip, saputo del fallimento degli attentati, si era
fermato al Café in attesa del ritorno del corteo dell'arciduca. Il
corteo passò abbastanza spedito nel viaggio di andata e a Gavrilo
non sarebbe stato possibile succedere nel suo intento assassino se il
signor Lojka, una volta svoltato sulla via Franz Josef, non si fosse
rese conto che aveva sbagliato strada. La folla assiepata gli fece
infatti capire che non era più quello il programma del corteo. Lojka
rallentò, si fermò e fece per tornare indietro, in retromarcia,
proprio davanti al Café Schiller.

E fu così che Gavrilo Princip ebbe l'occasione che aspettava. Con l'auto quasi ferma davanti a sé, si avvicinò un poco in modo da trovarsi a non più di due metri e puntò la pistola sull'arciduca, colpendolo con un colpo alla vena giugulare. Sophie, mentre si voltava terrorizzata verso Gavrilo, si parò allora immediatamente davanti al marito e fu così colpita all'addome dal secondo colpo di Gavrilo che uccise lei e e Franz Ferdinand insieme. Il Conte Harrach, il quarto uomo nell'auto, si voltò allora per verificare le condizioni dell'arciduca, e gli chiese come si sentisse. La gola sanguinante, il capo reclinato ma ancora ritto, con Sophie riversa sul suo addome, Franz Ferdinand ebbe solo il fiato per dire "non è nulla". Per quanto il povero Leopold Lojka si dette da fare per togliersi di lì e raggiungere la residenza dei reali il più in fretta possibile, Sophie vi giunse morta mentre Franz Ferdinand spirò dieci minuti più tardi.
Quell'angolo
tra il lungofiume e quella che era la via Franz Josef è ancora
pressappoco uguale ad allora. A guardarlo fa una certa impressione, a
pensare all'auto guidata
dal signor Lojka che si ferma tra la folla e
cerca di fare marcia indietro. Allora come oggi la stessa folla, la
stessa strada stretta che curva immediatamente. Doveva essere stata
costruita "ad elle" per preservare il limite della città
vecchia – la Basciarscia
(italianizzato) – subito dietro la moschea più grande con la sua
madrassa, la scuola islamica. Oggi come allora le auto non entrano
nella zona più antica, i vicoli sono troppo stretti, gli edifici
bassi tra le molte moschee, i negozi di artigianato e spezie
allineati in piccoli spazi e tanti luoghi di ritrovo e consumo di
cibo, strettamente divisi per "specialità": quelli dove si
mangiano le tipiche salciccette (cevapi),
quelli per le zuppe e gli stufati (asci),
quelle per le sfoglie ripiene (bureg),
le pasticcerie (slasticiarna)
e i caffè, dove i bosniaci amano passare ore a conversare.
Famiglie con bambini, ragazzi in gruppi, giovanissime coppie, uomini
d'età, tutti frequentano la Barsciarscia,
tutti
sanno cosa questa offre e cosa ci si va a fare. C'è qualcosa di
fisso
in queste abitudini che si preservano e che vengono seguite con
religiosa adesione. Cambia il contesto, forse – oggi molti hanno un
aggeggio in mano, sia un telefono o qualcosa di elettronico, oggi ci
si muove in auto – ma il cuore delle abitudini rimane lo stesso.
Dopo l'attentato Gavrilo fu immediatamente arrestato e un progrom contro i serbi si scatenò subito a Sarajevo e in altre zone slave dell'impero, che poi Ivo Andric ricorderà come la "frenesia d'odio di Sarajevo": uccisioni, distruzioni e saccheggi contro i Serbi durarono per i giorni successivi. Princip e gli altri cospiratori vennero tutti presi e processati dagli Austriaci nell'ottobre 1915, mentre la guerra infuriava sui fronti: cinque di loro furono condannati a morte per impiccagione (ma a due di loro la pena verrà commutata), mentre i tre giovani sotto i venti, tra i quali Gavrilo, furono condannati a soli 20 anni perché la legge austriaca non prevedeva la pena di morte per i minorenni. Anche tre dei cospiratori della Mano nera, tra i quali Apis, verranno poi presi e condannati a morte nel 1917 – per alto tradimento, non per l'assassinio dell'arciduca – grazie ad un accordo di collaborazione segreto tra Austria e Serbia raggiunto durante la guerra. Solo Mohamed Mehmetbasic, l'unico musulmano del gruppo, il primo sicario che non era riuscito a lanciare la bomba, riuscì ad avere una condanna di 15 anni in Serbia, che fu poi comminata nel 1919.
— § —
La
storia di Gavrilo è la triste storia di povertà e di desiderio di
rivincita, di eroismo inutile per affrancarsi dal dominio senza
averne i mezzi e sbagliando i fini. In quello che era il Cafè
pasticceria di Schiller, oggi c'è il "Museo di Sarajevo
1878-1918", un'unica ampia stanza dove sono esposte fotografie,
armi, abiti d'epoca, e dove viene ricostruita la storia della
dominazione austriaca e dell'assassinio dell'arciduca e della moglie.
Guardo la triste faccia di Gavrilo Princip in uno dei pochi suoi
ritratti rimasti famosi, preso in prigionia.
Ha l'aria di un
contadino modesto e infelice, due baffetti pretenziosi e uno sguardo
ad un tempo ossessivo e sgomento. Nato il 25 luglio 1894 in un
villaggio tra i monti della Bosnia Occidentale, vicino al confine
croato, popolato per la maggioranza da contadini serbi, Gavrilo, cui
moriranno sei fratelli prim'ancora di aver raggiunto l'età, fu
mandato dal padre postino a Sarajevo da un suo fratello più anziano
perché questi lo mantenesse. Nel febbraio 1912, Gavrilo fu espulso
dalla scuola per aver partecipato a delle manifestazioni di protesta
contro gli Austriaci e fu così che riparò a Belgrado dove, nel
prepararsi agli esami di riammissione al ginnasio conobbe Momcilo
Nastasijevic, che sarà poeta e drammaturgo importante e che fu anche
il suo solo amico in quegli anni. Nel 1912, in occasione della prima
guerra balcanica, Gavrilo provò ad unirsi alla società segreta
"Unificazione o morte", detta anche Mano
nera,
ma non vi venne ammesso perché troppo basso di statura. Gavrilo non
si diede per vinto e viaggiò fin nella Serbia meridionale per
incontrarsi con una delle eminenze della Mano
nera,
Vojislav Tankosic, ma fu da questi respinto perché "troppo
piccolo e debole". E fu questo, forse, uno dei motivi che lo
porterà a dichiarare di voler commettere qualcosa di grande per
dimostrare la sua adeguatezza. Tornato a Belgrado, Gavrilo ebbe modo
di conoscere Zivojin Rafajlovic, un'altra terribile figura della
storia serba – fondatore del movimento dei cetnici
–,
il quale lo mandò ad un campo di addestramento a Vranje, ove durante
la prima guerra balcanica si fermò il quartier generale serbo. E fu
così che Gavrilo fu coinvolto nella cospirazione degli uomini della
Mano
nera
che portò all'assassinio dell'arciduca.
Assieme a Trifko Grabez, diciannovenne (nato giusto il 28 giugno) di Pale, un villaggio vicino a Sarajevo, e a Nedeliko Ciabrinovic, anche lui diciannovenne, di Belgrado, Gavrilo partecipò all'evento che non solo avrebbe cambiato la sua vita ma la storia del mondo, suo malgrado. Anche se non è chiaro se i tre fossero già "malati di tubercolosi", come dicono frettolose biografie, e non "avessero dunque nulla da perdere" – come se si dovesse essere già destinati per non avere nulla da perdere – ai tre fu dato ordine di ingerire una pillola di cianuro non appena fossero stati arrestati, per non dover così confessare chi erano i loro mandanti. E subito dopo aver sparato i suoi due mortali colpi, prima ancora che la polizia gli saltasse addosso, Gavrilò ingerì la pillola che aveva con sé, ma vomitò subito, forse perché era scaduta, e tentò allora di spararsi un colpo in testa, senza riuscirvi perché intanto era stato immobilizzato. I tre giovani furono tutti condannati a 20 anni mentre Danilo Ilic, l'amico di Gavrilo di tre anni più grande che organizzò la spedizione, sarà impiccato senza avere sparato o lanciato bombe.
Gavrilo
e i suoi due giovani compagni "graziati" per la giovane età
furono quindi mandati nella prigione austriaca di Theresienstadt,
nella regione dei Sudeti boemi. Le pessime condizioni della prigione,
peggiorate dallo stato di semi-abbandono dovuto alla guerra, e la
tubercolosi ossea si portarono via presto le tre giovani vite. Trifko
morì nel 1916, mentre Nedeliko e Gavrilo perirono nel 1918. Gavrilo
venne divorato lentamente dalla malattia al punto che il suo braccio
dovette essere amputato. Il 28 aprile, ultimo dei tre, egli spirò
nella sua cella umida. Per evitare pericolosi pellegrinaggi da parte
dei nazionalisti slavi, la tomba dei tre rimase però non
identificata finché un secondino ceco, che aveva partecipato alla
sepoltura, nel 1920 volle rivelare il luogo dove i tre erano stati
seppelliti. E fu così che i le ceneri dei tre eroi del Vitovdan
furono riportate a Sarajevo dove vennero interrate nella cappella
ortodossa del cimitero di San Marko in una tomba costruita per
"immortalare per l'eternità i nostri eroi serbi".
Sotto il regno di Jugoslavia la casa di Gavrilo a Sarajevo venne adibita a museo ma nel 1941, con l'occupazione nazista e l'annessione alla Croazia, essa fu distrutta dagli ustascia croati. Venne allora ricostruita sotto Tito, dopo il 1944, tornando ad essere museo. Nel 1992, tuttavia, subito dopo la dichiarazione di indipendenza dalla Jugoslavia della Repubblica di Bosnia e la successiva offensiva militare serba appoggiata dall'esercito jugoslavo, la casa di Gavrilo Princip venne nuovamente presa di mira come simbolo serbo e nuovamente distrutta.
Lo stesso avvenne con il museo. Fino al 1992 una lapide carica di retorica nazionalista aveva sovrastato il luogo da dove Gavrilo aveva sparato i due colpi di pistola mortali. Una lapide in solo cirillico che non menzionava nemmeno l'arciduca e la moglie ma soltanto la loro "bieca tirannia". E sotto la lapide, come ad immortalare l'atto eroico, cui fa seguito l'immobilizzazione dell'eroe da parte delle forze di polizia, erano state impresse due impronte nel cemento fresco. L'iconica lapide è ora stata portata dentro il piccolo museo, assieme alla lastra di cemento impressa con le due impronte del piccolo serbo.
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Doveva essere forte il sentimento anti-serbo perché subito dopo l'indipendenza, quando già le truppe di Milosevic si preparavano ad invadere il neo-indipendente territorio della Repubblica, in uno dei suoi primi atti il nuovo governo faceva rimuovere la retorica lapide pro-serba in favore di una lapide più neutra, per ricordare la data dell'evento e le sue illustri vittime. Anche il nome del ponte fu immediatamente cambiato e da Ponte Princip tornò ad essere Ponte Latino. Il nuovo governo "jugoslavo" nel 1919, peraltro, aveva fatto lo stesso con il monumento all'arciduca, posto ai due lati di entrata del ponte nel 1917 e subito rimosso (oggi ne è rimasto solo un pezzo).
Mentre mi aggiro per la stanza che appare uno strano mix di compiacimento austro-ungarico e fredda ricostruzione storica degli eventi, senza implicare nulla e nessuno, noto che ci sono la pistola, le spade, persino le uniformi – leggo che l'uniforme imbrattata di sangue di Franz Ferdinand si trova in un museo in Boemia – , le fotografie, le mappe. I manichini dell'arciduca e della consorte immortalano l'uscita della coppia dal Municipio, ripresa in una celebre cartolina. La bella principessa Sophie l'hanno fatta bruttina, poverina, e sembra davvero una sfatta casalinga ceca accanto al suo impiegato del regno.
Nelle vecchie immagini, il Ponte Latino non appare molto diverso da come è ora, come diversa non è la Obala, il lungofiume, se non fosse per gli alberi che ora sono spariti e l'asfalto che ora copre la strada bianca. Certo la via Franz Josef ora è intitolata ai Zelenih Beretki (Berretti verdi, soldati bosniaci durante quest'ultima guerra), il ponte non è più chiamato Princip e del figlio del postino che voleva fare "un gesto grande per i popoli slavi del sud e liberarli dalla tirannia", non si fa più menzione.
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Leggo che furono cinquantamila almeno i bosniaci che morirono combattendo sotto le insegne austro-ungariche durante la Prima Guerra Mondiale e che furono tanti i valorosi combattenti che si distinsero: ben 27.000 medaglie furono dispensate dall'esercito austro -ungarico ai soldati bosniaci. Quella guerra fu dichiarata dall'Austria-Ungheria per l'uccisione dell'arciduca nella quale il Regno di Serbia non aveva responsabilità dirette, anche se il suo capo dei servizi segreti, il terribile Apis, vi fu implicato con la Mano nera. Nei giorni che seguirono l'assassinio ci furono schermaglie diplomatiche, il governo austriaco mandò una lettera che rimase nota come "l'ultimatum di luglio" nella quale chiedeva un impegno al governo serbo nella lotta contro l'irredentismo nei territori controllati dall'impero asburgico e alcune atti importanti "entro 48 ore". La lettera fu rifiutata solo in una serie di punti e, dopo aver ottenuto un impegno dal governo russo, la Serbia non fu però in grado di rispondere positivamente. Una schermaglia di là dal Danubio, non lontano da Belgrado, tra soldati serbi e austriaci fece infine esplodere la polveriera e il 28 luglio l'Austria dichiarò guerra alla Serbia. Grazie al Trattato Segreto stipulato nel 1892, Russia e Francia erano però obbligate a mobilitarsi nel caso uno dei membri della Triplice Alleanza tra Germania, Austria e Italia si mobilitasse. E così fu. Russia e Francia dichiararono guerra all'Austria, la Germania si mobilitò contro Russia e Francia. In 10 giorni, l'Europa si ritrovò in guerra su tutti i fronti.
Questa era la storia come la studiamo alle elementari, pensavo guardando la carta d'Europa con i vari regni e confini prima e dopo la grande guerra in mostra nel piccolo museo. Eppure, sembra che tutti i governanti d'Europa non vedessero l'ora di mandare in guerra i propri generali e migliaia di poveri soldati coscritti da ogni dove. L'assassinio dell'arciduca fu chiaramente un pretesto. Dopo aver individuato i colpevoli – un gruppo di fanatici che per una serie di combinazioni era riuscito ad effettuare un colpo maestro – l'attenzione austriaca si rivolse ai Serbi per esasperarne la reazione. E questi, non vedendo migliore occasione per provocare finalmente il gigante austriaco, ne approfittarono, con il consenso russo. Ma lo zar non sapeva forse in che cosa stava andando a cacciarsi, così come i francesi, finalmente contenti di uscire dall'isolamento in Europa dove si erano infilati dopo la sconfitta nella guerra franco-prussiana del 1871, la perdita di Alsazia e Lorena e il paese ferito dalle memorie della Comune, sembravano non vedere l'ora di dare finalmente una lezione alla Germania di Wilhelm II. Così, quella che doveva essere una guerra che doveva chiudersi entro Natale durò più di quattro anni con terribili danni e milioni di morti. I Serbi patirono pesantemente l'attacco austriaco e nei quattro anni ebbero un milione di morti. Alla fine della guerra però, e solo grazie alla sconfitta dell'Austria a opera di altri, Serbi, Croati, Sloveni e Bosniaci si ritrovarono sotto un unico stato, un regno che fu affidato con consenso precario ad un Re della famiglia Karagiorgevic. Questi, nel 1929, per respingere le crescenti spinte federaliste e nazionaliste, instaurò un regime autocratico, anche se solo per due anni, senza però riuscire a far davvero convivere le molte e divise popolazioni "slave del sud".
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Theresienstadt, detta Terezin in lingua ceca, era una fortezza eretta dagli Asburgo alla confluenza del fiume Ohre con l'Elba, cui fu dato quel nome in onore di Maria Teresa. La fortezza, che fu anche attaccata durante la guerra austro-prussiana del 1866, venne poi utilizzata come prigione per i prigionieri politici. La regione di Theresienstadt, quella dei Sudeti, era da molti secoli abitata prevalentemente da popolazioni di etnia e lingua tedesca, pur trovandosi in territorio boemo (ceco). Dopo l'anschluss dell'Austria nel marzo del '38, Hitler annesse anche la regione dei Sudeti nell'ottobre, dopo aver ottenuto il concenso dei governi Inglese e Francesi (ma non di quello Cecoslovacco) alla Conferenza di Munich. Così, nel 1940, la Gestapo iniziò la costruzione di un enorme ghetto nella fortezza, facendone un campo di lavoro forzato. Tra il 1942 e il 1944 vi entrarono più di 150.000 tra ebrei e prigionieri vari, prima di essere mandati ai campi di sterminio. Nella sola prigione vi passarono più di 90.000 persone, e 2.600 vi morirono.
Accarezzo il nome di Terezin sul libro esposto nella sinagoga di Sarajevo. È lo stesso di cui racconta W.G. Sebald nel suo Austerlitz, dove ci finì la mamma del suo protagonista. A volte il destino si fa beffa dei suoi perpetratori. Gavrilo Princip uccise Franz Ferdinand con un gesto estremo senza immaginarne le conseguenze. Da Sarajevo Gavrilo volò a Theresienstadt per morirvi, da Theresienstadt tornarono le sue misere spoglie per restare a Sarajevo. Sono migliaia gli ebrei e i deportati che, anche dalla Bosnia, stettero a Theresienstadt in prigionia dei nazisti, per morirvi o venire trasferiti altrove. Gli ebrei che, la storia narra, avevano fatto di Sarajevo una "piccola Gerusalemme", come loro stessi amano dire, dopo che nel '500 avevano cominciato ad arrivare da Thessaloniki in conseguenza della nuova diaspora cominciata in Spagna nel 1492. Fu soprattutto una comunità sefardita quella che si stabilì qui, fino a farne una delle maggiori d'Europa. A parte l'ondata antisemita sotto gli Asburgo, quando questi occuparono Sarajevo per una quarantina d'anni nel 1697, gli ebrei qui godettero sempre di uguali diritti e buone condizioni – anche grazie al sistema islamico ottomano del millah (o millet, ovvero nazione) per il quale ogni comunità religiosa si regola secondo regole proprie – , in una città che nel tempo è sempre stata multi-religiosa e tollerante. Prima della seconda guerra mondiale gli ebrei arrivarono ad essere il 20 per cento della popolazione cittadina, ma con l'occupazione nazista e gli ustascia croati cominciarono le deportazioni e la popolazione ebrea si ridusse fino a poche centinaia di membri.
Sarajevo conserva la storia di una preziosa Hagaddah che è giunta fin qui dalla Spagna del XIV secolo. Il libro è rimasto come una reliquia preziosa nascosto fino al 1892, quando un tal Josef Cohen lo offrì alla società di mutuo soccorso La Benevolencia appena fondata per un prezzo simbolico e astronomico. Il volume fu poi acquistato dal Museo Nazionale (la cui nuova sede doveva essere inaugurata da Franz Ferdinand). Quando i Tedeschi entrarono a Sarajevo nel 1941, fu uno dei primi oggetti che essi ardentemente ricercarono, senza successo però, grazie all'astuzia del direttore e del curatore del museo. Anche nel 1992 l'Hagaddah rischiò di andare perduta, ma fu salvata e conservata nelle casseforti della Banca Centrale.
Gli
ebrei hanno sempre avuto un buon rapporto con gli altri abitanti di
Sarajevo, contribuendo al benessere della città e integrandosi con
le altre comunità. Nei giorni dell'assedio di Sarajevo, tra il 1992
e il 1995, La
Benevolencia
fu ad un certo punto l'unica organizzazione locale di soccorso
operante e in grado di dare assistenza e di fare evacuare la
popolazione della città. Leggo la storia della società scritta da
Jakob Finci, datata settembre 2012 e pubblicata online e ripenso al
buon vecchio Jakob.
Ho conosciuto Jakob nel 2002, quando era a capo dell'Agenzia deputata alla selezione dei civil servants del paese. Lo avevano nominato non tanto per le sue qualità professionali, quanto perché forse egli poteva garantire una gestione sopra le parti. Ha poi finito per divenire inefficace, bloccato dai veti incrociati e dalla sua naturale tendenza al compromesso. Da Gavrilo Princip a Terezin, i pensiero mi porta a Jakob, che mi diceva sempre che "anche a Bologna c'erano dei Finzi!" (Finci in lingua slava si legge Finzi). Jakob mi faceva pensare ad Azazello, il diabolico "assistente" di Woland, nel Maestro e Margherita di Bulgakov. C'era qualcosa di sulfureo e diabolico in lui, nel suo istinto di sopravvivenza, nella sua buffa e vispa occhiata, quando sorrideva, seduto con i piedi che non toccavano terra (non è di statura molto elevata). Nato nel campo di concentramento italiano di Rab in Croazia il 1 ottobre 1943, è l'ebreo oggi più in vista della comunità di Sarajevo. Ha due figli che vivono in America, una moglie alta almeno una spanna più di lui (e anche più imponente), ed è facile trovarlo al Casino, amante della roulette. Non mi ha mai parlato male degli italiani – sa troppo bene la differenza tra fascisti e italiani – pur avendo i suoi patito il campo di concentramento fascista (non ustascia, per loro fortuna), che fu chiuso pochi giorni dopo la nascita di Jakob, dopo l'armistizio di Badoglio con gli Alleati. Ma mi ha raccontato di molti ebrei di Sarajevo che sono finiti a Jasenovac, a Theresienstadt, a Auschwitz e a Buchenwald.
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La fontana nella piazza centrale della Basciarscia è sempre popolata da uccelli, uccelli di passaggio a volte, il più delle volte, forse, uccelli stanziali. Come i molti uomini e donne che abitano queste terre, che non sono sempre stati qui, i cui antenati sono pur arrivati qui un giorno vicino o remoto e che pure reclamano queste valli come proprie, per il solo fatto di averci fatto casa per decenni o secoli. Gli ebrei che giunsero qui dopo la cacciata dalla Spagna sono arrivati prima di grande parte dei Serbi, che qui arrivarono con la cosiddetta prima Grande Migrazione alle fine del '600, insediandosi in Erzegovina e nelle zone montagnose a ridosso della Dalmazia, oltre che in Bosnia orientale e settentrionale, a ridosso del confine con la Slavonia. Come i Croati, che hanno sempre abitato quelle regioni della Bosnia a ridosso della Dalmazia o della Slavonia. Come quei Bosniaci che nei secoli, con il penetrare della dominazione ottomana, si convertirono all'Islam per poter essere uguali tra gli uguali e ambire ai privilegi dei convertiti, in un sistema che fino ai tempi più recenti fu sempre molto tollerante. Popoli di passaggio, anche i Serbi migrarono, perché cacciati dagli Ottomani, verso le terre asburgiche, e così fecero i Croati che non vollero convertirsi. Popoli stanziali, come sono più spesso stati i contadini delle aspre valli di questo paese povero, duro, sempre marginalizzato dalla storia, un paese di passaggio verso l'Oriente, per Roma, una terra di confine per i Bizantini, gli Ottomani e gli Austro-Ungarici. Quale che fosse la loro religione e il loro fanatismo.
Come quello di Ratko Mladic, generale serbo, che il giorno che entrò a Srebrenica ebbe a dichiarare che dedicava quella vittoria al popolo serbo, in un giorno importante, la vigilia di San Pietro (il 12 luglio, 29 giugno del calendario giuliano)! Il memoriale di Srebrenica ha aperto ora una piccola galleria a fianco della cattedrale, nel centro di Sarajevo, a ricordare il massacro di 8.000 uomini e ragazzi perpetrato dagli uomini di Mladic. È lì, in bella vista. Tutto qui è rimasto fermo a quei terribili mesi tra l'aprile del 1992 e il dicembre del 1995 e ancora non riesce a muoversi di lì. Come quegli stormi d'uccelli sopra la chiesa che sembrano muoversi e non se ne vanno.
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Ricordo l'autista che mi guidava sopra Srebrenica che, fermandosi un momento sopra la cittadina per mostrarmi il panorama, con naturalezza si lasciò scappare: "Sta bene, finalmente, senza tutte quelle moschee".
Sarajevo, Bosnia Erzegovina
